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panorama

Eva Marisaldi

Bologna 1966

Vive e lavora a Bologna

Studio visit di Marco Scotti

Entrando nello studio di Eva Marisaldi la prima cosa che vedreste sarebbero degli strumenti per Musica per cantieri, soggetto di un video in preparazione. E un albero di limoni, sfondo per le lezioni a distanza che l’artista ha da poco abbandonato. «Ora non insegno più. Più tempo per tutto», ricorda Eva, facendo notare come di punto in bianco lo studio sembri quasi un’orangerie. Siamo a Zola Predosa, alle porte di Bologna, e l’albero ci riporta subito alla prima cosa di cui vorrei parlare con lei, il rapporto con lo spazio dove progetta e lavora. C’è uno studio di Eva Marisaldi? E che funzione ha? «Lo studio c’è? Non c’è? Lo studio cammina con me», Eva ci porta subito dentro la questione del suo fare artistico, «Se vado a spasso per le colline, non sembra ma a volte è lì. Vengono delle persone a casa, si parla, e a volte è lì. Reazioni a video, suoni, progetti, aiutano a capire meglio. Per anni ho lavorato in treno, dove ho tessuto anche fili d’erba. Anche in mezzo a uno sterpeto con sassi osservo le formiche».

Poi c’è anche uno studio fisico, un garage, ampio, in cui lei ed Enrico Serotti hanno girato diversi video. «Lo spazio ora non è vuoto, ma consente di lavorare con cose ingombranti, come i set per i video e i grandi disegni. A casa ci sono una-due stanze in cui faccio cose più ridotte». Ma non è solo questo, appunto, a definire la sua ricerca, non può esserlo per un artista che osserva e ascolta ogni dettaglio prima di tutto: «quando leggo, ad esempio, non sono lì per farmi venire delle idee, ma so comunque che sto trattando la materia. È un vanto non usare tutto. Molti problemi sono di competenza di altri specialisti, artisti o interpreti di dati che dir si voglia».

Quali sono allora oggi le scelte di Eva Marisaldi? Prima della pandemia aveva presentato un progetto che si relazionava con alcune opere della collezione della Estorick Collection di Londra, seguito da un intervento per ARTEFIERA nel 2020 su commissione del direttore Simone Menegoi, poi ovviamente le collaborazioni con spazi e contesti fisici sono diventate più rare. «Ci sono stati divertimenti, cose sospese, in bilico, decisioni da prendere. Cerco e trovo ragioni e visioni a cui dare una presenza». Fa eccezione il progetto commissionato dallo CSAC dell’università di Parma, Secondi tempi, un confronto tra le collezioni dell’istituzione e l’archivio personale dell’artista  ̶ composto da ritagli di giornali  ̶ da cui è nata una serie di immagini che spaziano dal design delle macchine per produrre energia all’Africa, fino a materiali e pensieri collegati ai tessuti, alla scultura e al teatro. Un progetto a cui ho lavorato e che ho seguito fin dall’inizio, e su cui oggi possiamo ritornare dopo l’apertura al pubblico: «Io lo trovo smilzo e generoso», racconta Eva Marisaldi, «Mi rendo conto di una certa perplessità destata dalle immagini di Gheddafi. Tutti fanno affari in Africa, ma gli africani migrano in Europa. L’Africa è da studiare, ma non solo per le materie prime… per la Storia, la letteratura. Non dovrei occuparmene solo perché non sono un’addetta ai lavori? Elaboro dati, ma la mia logica è balzana. Alcuni fortunati accostamenti con tesori presenti allo CSAC sono piccoli happening immateriali. È difficile rendermi utile». Rendersi utile in questo caso è anche rileggere Fausto Melotti per arrivare a realizzare un video che rappresenta un piccolo teatro, con piccoli rocchetti che diventano dispositivi sonori. «Si studia tutto partendo da qualcosa, come diceva uno scrittore russo studiato da Walter Benjamin, Nikolaj Semënovič Leskov, che si occupava di geografie umane», raccontava l’artista nel comunicato che introduceva la mostra.

Direttamente collegata con questa riflessione c’è quella relativa al modo in cui viene affrontata una pratica di lavoro collaborativa insieme a Enrico Serotti. «Enrico è un musicista, suona la chitarra con il Confusional Quartet. La nostra collaborazione parte da lontano, è iniziata nel 1991, con il progetto Via Crucis, curato da Roberto Daolio. Enrico è sempre aggiornato su tecnologie, elettronica, scienza… Le mie competenze si stenta a vederle, ma non tutto può far parte del mio lavoro. Io cerco le ragioni del trattamento. Ci sono, a volte, divertimenti che divertono solo chi li fa e non escono nel mondo».

Ci sono anche i progetti che non hanno mai visto la luce, uno però è appena stato esposto nella mostra Hidden Displays 1975-2020. Progetti non realizzati a Bologna al MAMbo. On tour era l’idea per uno strumento musicale azionato da due pesci, uno rosso e uno blu: «era stata suggerita da George, uno delle prime chatbot basati sull’AI, che era veramente avanzato per l’epoca. Il software si costruisce una memoria via via archiviando le conversazioni svolte con migliaia di persone curiose. Noi ci abbiamo chattato parecchio, e abbiamo realizzato diversi lavori con le trascrizioni dei dialoghi». A Bologna era esposto un modello, con pesci stampati in PLA da Enrico Serotti a sostituire quelli veri, un prototipo. «La realizzazione grezza comunque è nelle mie corde» ricorda Eva Marisaldi, un qualcosa che fa parte del suo fare artistico attento, poetico ma anche profondamente concreto, una pratica che ascolta le suggestioni, lavora per accostamenti e sottrazioni, un gioco che guarda al caso e ricerca relazioni.