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panorama

Enrico Vezzi

San Miniato 1979

Vive e lavora a San Miniato

Studio visit di Angel Moya Garcia
aprile 2022

Uno studio in una ex-conceria, nella periferia di San Miniato, in provincia di Pisa, accoglie praticamente tutta la produzione dei lavori site e time specific che Enrico Vezzi ha realizzato negli ultimi vent’anni. Prediligendo il processo, la possibilità di cambiamento, il dialogo, l’interazione con gli altri e il costante rinnovamento, i lavori si inseriscono e si destreggiano sul confine che distingue due individui, sciogliendolo per ricreare una nuova unità basata sull’interazione e sull’incertezza del soggetto privato che soccombe di fronte a quello collettivo. Non si tratta, tuttavia, di una ricerca aleatoria, scevra del tutto di ogni traccia del soggetto, bensì di un approfondimento su tutto ciò che lo circonda, per capire fino in fondo in quale luogo si possa raggiugere un’identità in armonia con la natura che lo ha generato e con gli altri. 

Tutti i lavori di Vezzi partono dalle relazioni, dagli incontri fortuiti, per costruire opere che non si esauriscono nella presentazione al pubblico, ma che spesso sono in divenire. Cambiano, vengono alterati, modificati anche successivamente. Lavori che partono dalla sua biografia per svuotarsi, per svuotarla, arrivando a mettere in relazione e a confronto il proprio sé con le caratteristiche fisiche e mentali del luogo in cui va a lavorare attraverso le domande che nascono in un contesto determinato. 

Nell’ambito dell’arte attuale, il lavoro di Vezzi lo potremmo inserire in quelle pratiche che Emanuela De Cecco aveva definito magnificamente nel suo libro Non volendo aggiungere altre cose al mondo (2020). Modalità di intervento che vengono sviscerate attraverso la rinuncia alla produzione materiale delle opere come valore programmatico, filosofico e, inevitabilmente, politico. Un’attitudine declinata in una tensione costante e tradotta in un agire profondamente radicato nell’esperienza e nell’azione personale. Ed è proprio a partire da qui che l’opera diventa pubblica e capace di intercettare questioni che riguardano il sentire collettivo. Nel caso di Enrico Vezzi emerge, in questo senso, quella necessità ecologica di non aggiungere niente alla realtà se non quello che, in quel preciso istante, lui considera estremamente necessario. Lo spazio dello studio è dedicato all’interrogarsi con sé stesso, sia con la propria biografia sia con l’attualità, per capire dove l’umanità, lungo la sua storia, ha preso la strada sbagliata. Una ricerca sulle propensioni attuali e di come si sono evolute e ci hanno portato a concepire la società e la cultura come la conosciamo oggi. Il bisogno di definire determinate sovrastrutture, per tentare di delineare l’attuale immaginario dell’umanità, è alla base del lavoro L’ordine immaginario, a cui sta lavorando da tempo e che sarà presentato prossimamente a La Portineria di Firenze. Un lavoro in cui elementi naturali, libri di storia e politica e artefatti di varie culture si snodano come una costellazione che fluisce in funzione di come la Storia ci ha attraversato, non in ordine cronologico o prestabilito, ma come flusso, secondo le suggestioni che emergono nel corso della costruzione fisica del lavoro. Invece Immedesimarsi, presentato all’interno del progetto Imboscata, unisce dei plexiglas specchianti di diversi colori, sostenuti da tronchi di olivo, a una telecamera a infrarossi, rivolgendo l’intenzionalità non allo sguardo umano, bensì alla coscienza degli animali. Le coincidenze degli incontri con altre persone determinano spesso la formalizzazione finale dei lavori, che vanno al di là di una volontà ricercata. La tematica degli ultimi lavori si concentra sul trovare risposte a queste domande, attraverso l’insistenza sui tentativi di comprensione, in cui gli aspetti ecologici e naturali insieme alle dinamiche sociali, politiche, storiche e culturali o il rapporto tra il mondo animale e quello umano si intrecciano senza soluzione di continuità.

Le condizioni fisiche e mentali, che Vezzi ritrova nei vari contesti, sono suggestioni soggettive che non sempre possono contare su una riconoscibilità collettiva. L’artista sopperisce a questo possibile ostacolo attraverso i titoli dei lavori. Il dubbio è che questi sembrino una giustificazione rispetto alla possibilità di comprensione e interpretazione del lavoro stesso. Allo stesso tempo, i titoli scelti potrebbero portare a una lettura fin troppo unilaterale e limitante del suo lavoro. In alcuni casi si percepisce una scissione molto forte tra l’apparato concettuale e quello visivo, uno spartiacque netto che riesce a essere superato attraverso quelle sovrastrutture rappresentate dai titoli o dalla conoscenza della ricerca che l’artista porta avanti. Questo può rappresentare un punto di fragilità, poiché crea una distanza tra coloro che hanno le strutture per decodificare determinate informazione e coloro che rimangono ignari.

Gli elementi, a mio avviso, più interessanti del suo lavoro, emergono, nella maggior parte dei casi, quando questo cortocircuito si annulla e il rapporto tra formalizzazione e titolo diventa una stratigrafia superabile, in cui la volontà estetica e quella concettuale non possono prescindere l’una dall’altra. I lavori in cui i tentativi trovano un equilibrio tra le sfumature contenute, senza necessità di conoscere la biografia dell’artista o di avere un apparato critico di sostegno per visualizzarle e in cui è evidente l’estetica di presentazione come esca per catturare la prima attenzione da parte dell’osservatore. Naturalmente la complessità stratigrafica della maggior parte dei lavori, sia quelli storici sia quelli più recenti, permette a chiunque di scavare, scegliendo, in base al proprio substrato culturale e alla propria sensibilità, fino a dove poter e voler arrivare.