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The Exhibition as a Critical Device
A Perspective between Past and Present

documenta fifteen, documenta Halle, on the back wall, Britto Arts Trust, ছায়াছবি Chayachobi, 2021-2022, acrylic on canvas and wall, Kassel, 2022, photo documenta

Questo articolo è disponibile anche in: Italiano

«Pazzi lamentano il decadimento della critica
poiché il suo giorno è passato da un pezzo.
La critica è una questione di corretta distanza.
Era di casa in un mondo in cui prospettive e prospetti contavano
e dove era ancora possibile assumere una posizione.
Ora le cose premono troppo da vicino sulla società umana»[1].
Walter Benjamin

La distanza, il distacco e l’intervallo sono stati storicamente i principi fondativi del rapporto tra gli artisti e una critica che si assumeva la responsabilità di analizzare, studiare, interpretare e decodificare un determinato contesto. Storia dell’arte, filosofia e letteratura si intrecciavano senza soluzione di continuità nel tentativo di delineare, comporre o configurare una lettura esegetica della realtà, in cui le ricerche e le diverse rappresentazioni o codificazioni realizzate dagli artisti venivano indagate e veicolate quasi esclusivamente attraverso la parola scritta. In quest’ottica diveniva quasi impossibile intendere il senso e la portata dei fatti e dei movimenti artistici senza tener conto della letteratura critica che a essi si riferiva. Alla luce di questi presupposti, il principale ruolo della critica consisterebbe nel mediare, cioè nel gettare un ponte sopra il vuoto creato tra gli artisti e il pubblico, cioè tra i produttori e i fruitori dei valori artistici, divenendo un prolungamento o un tentacolo con il quale l’arte tenta di agganciarsi alla società.

Tuttavia, due grandi problematiche sono emerse nella storia della critica più recente. La prima riguarda proprio il suo statuto, perché, se ne accettiamo la funzione principalmente esplicativa e divulgativa, non si comprende il suo porsi come materia scientifica o, in altri casi, come un genere letterario che ricorre ad argomentazioni spesso enigmatiche. Il suo avvalersi di un linguaggio tecnico, in cui abbondano nomenclature specialistiche ed ermetiche[2], la portano, in effetti, a diventare paradossalmente meno accessibile del testo figurativo a cui si riferisce. La seconda questione, invece, ha a che fare con l’assimilazione della critica all’idea di ‘stroncatura’, col confondere l’analisi dei contenuti con la distruzione della forma o la lettura prospettica basata su un giudizio personale, soggettivo e scevro da qualunque inquadramento sistemico. Il veleno, il sarcasmo, il commento pungente o la scrittura implacabile dovrebbero scendere a patti con il rigore, la contestualizzazione e con un minimo di oggettività: basti ricordare come Baudelaire invitasse chi trovava caustiche le sue parole a rileggere i Salons di Diderot, in cui il grande filosofo, vistosi raccomandare un pittore che aveva molte bocche da sfamare, sosteneva la necessità di abolire o i quadri o la famiglia.

Il paradosso di una disciplina teorica che non gode di statuto scientifico (in quanto priva di un organo collettivo di verifica o di un consenso sui processi, sulle normative e su un’idea di progresso conoscitivo, e la cui funzione di decodificazione diventa spesso l’arroccamento di coloro che già posseggono i codici interpretativi, estromettendo un pubblico più vasto) ha condotto la critica in una posizione sempre più isolata, marginale, esclusiva e inefficace rispetto ai presupposti per cui è nata. Basti paragonare i noti scambi tra Francesco Arcangeli e Cesare Brandi o, più avanti, quelli tra Germano Celant e Achille Bonito Oliva nella stampa nazionale, con i più recenti dibattiti circoscritti quasi completamente alla stampa specializzata, per rendersi conto di come l’arte, fino agli anni Ottanta, occupasse un posto molto più rilevante rispetto a oggi nelle cronache, e di quanto qualunque dibattito teorico nell’attualità abbia perso di incisività rispetto agli interessi del pubblico a cui dovrebbe essere rivolto.

In questo contesto, la distanza, il distacco e l’intervallo, già citati all’inizio di questo articolo, si sono gradualmente trasformati in uno spartiacque netto, con pochi interstizi di possibilità, tra critica e società. Una fessura che continua a dilatarsi, seppur con alcune eccezioni in grado di rifondare le aspettative e riuscire a intraprendere un percorso che negli anni si è dissipato nella nebbia degli autoreferenzialismi o nel buio causato da interessi economici, dinamiche di autoaffermazione, convenienze relazionali o ricerca del consenso.

Se guardiamo alle figure esemplari della critica italiana del secolo scorso come Longhi, Carluccio, Tassi, Marchiori, Venturi e Argan, per arrivare ai più recenti Carandente, Lonzi, Boatto, Menna, Calvesi, Crispolti, Fagiolo dell’Arco, Vergine o Barilli, si fa strada un certo senso di nostalgia e malinconia per la meticolosità del linguaggio, per la capacità di affiancare gli artisti senza la presunzione di sovrastarli e per la necessità di una distanza, indispensabile per maturare un giudizio libero. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che la modalità di relazione tra critico e artista è cambiata drasticamente: abbiamo infatti assistito alla nascita del critico militante, che analizzava fianco a fianco con l’artista il senso del lavoro diventando ‘compagno di strada’, ma soprattutto abbiamo presenziato a quella della figura del curatore come tendenza epocale della critica, fondata proprio sul paradigma della prossimità e dell’interoperatività con l’artista. Questa propensione alla complicità, giustificata dall’affinità di urgenze e problematiche o dalla condivisione di un determinato contesto economico, politico e sociale, sembrerebbe contrastare ancora oggi con un’ostinata e nostalgica critica del dissenso, basata sulla distanza e la prospettiva come elementi sine qua non della propria legittimità, la quale ritiene che gli argomenti, le istanze e le formulazioni debbano prescindere categoricamente da una vicinanza che potrebbe compromettere il giudizio, l’interpretazione e la propria missione epistemologica.

In quest’ottica, tutto porterebbe a ipotizzare che la nostalgia, la malinconia e uno sguardo rivolto esclusivamente al passato rappresentino elementi dirimenti per coloro che ancora sostengono la necessità della distanza come fossero affetti da ipermetropia. Se riflettiamo su come siano cambiati radicalmente tutti i sistemi relazionali e interpersonali, o su come Internet, i social media o il modo di connetterci abbiano distrutto inevitabilmente qualunque paradigma precedente, se accettiamo come la velocità e la facilità con cui è possibile raggiungere le persone determini ogni rapporto personale o professionale, non possiamo ignorare il fatto che da rivedere sia la stessa concezione della critica, evitando forse un sentimento di malinconia rispetto a un passato che non tornerà mai più. Se, ancora, caratteristica dell’arte contemporanea è di appartenere al proprio tempo e di rispecchiarlo, come possiamo astrarci dal nostro contesto, guardando a quelli precedenti in cerca di coordinate, ormai inutilizzabili? Non sarebbe più congruo sdoganare definitivamente la stessa figura del critico, accettandone le molteplici declinazioni senza limitazioni tramandate, senza snobismi accademici, senza dogmi da rispettare e senza pregiudizi rispetto ai modi o ai luoghi in cui trova il proprio modo di esprimersi?

Sicuramente la declinazione del critico più problematica e potenzialmente equivoca corrisponde a quella del curatore, la cui proliferazione esponenziale negli ultimi decenni[3] (spesso superficiale[4], improvvisata e priva di una formazione approfondita) non ha aiutato a raggiungere un consenso diffuso rispetto al proprio ruolo, ancora troppo ambiguo e privo di connotati riconoscibili[5]. Spesso vediamo progetti in cui il curatore sembra avere il ruolo dell’organizzatore, dello sponsor o del promoter piuttosto che del critico. Raramente si vedono mostre che cercano di fare il punto su un particolare fenomeno e ancor meno progetti in cui gli artisti coinvolti vengono indagati nell’interezza del loro lavoro. In quest’ottica, il nucleo della problematica potrebbe e dovrebbe approssimarsi alla necessità di configurare linee guida per la scrittura espositiva, con obiettivi di maggiore complessità critica, definendo una volta per tutte il ruolo del curatore come colui che deve ‘affrontare’ criticamente una mostra.

In tal modo quest’ultima diverrebbe, finalmente e concretamente, il contesto per eccellenza in cui scrivere, verificare, declinare, interpretare, sviluppare e formalizzare teorie e contenuti critici, a partire dal dialogo diretto con gli artisti e dalla risposta del pubblico. Un dispositivo perfettibile ma dinamico, agile ma complesso, consolidato ma rinnovabile e, soprattutto, con un elevatissimo potenziale in termini di utenza da intercettare, un evento che si configura come «un avvenimento, con un proprio tempo e un proprio luogo, e che ha l’intrinseca capacità di restituire, come fosse un’istantanea, interessi e problematiche che attraversano il proprio contesto storico e geografico»[6]. Non mancano esempi di mostre dirompenti rispetto allo status quo del sistema in cui si inserivano o, ancora, esempi in cui la costruzione stessa di una mostra ha assunto le forme di un vero e proprio trattato teorico sulle dinamiche artistiche in corso. Andando a ritroso negli ultimi decenni possiamo costatare come documenta 15 (2022), curata dal collettivo ruangrupa, abbia messo in discussione l’ideologia neoliberalista del tardocapitalismo, spostando l’attenzione dall’individuo alla collettività e lavorando sulla rigenerazione, l’autosufficienza, l’indipendenza e la resistenza. Il Palazzo Enciclopedico (2013), la Biennale d’Arte di Venezia curata da Massimiliano Gioni,si è configurata come una mostra di cultura visiva attraverso un progetto che affrontava la funzione o la disfunzione dell’immaginazione e riportava in primo piano l’interiorità dell’artista e la sua capacità di produrre storie e forme.Gli argomenti scientifici, ambientalisti e politici alla base di documenta 13 (2012), curata da Carolyn Christov-Bakargiev, hanno contribuito a ripensare l’esplorazione e la conseguente rappresentazione della contraddizione confrontandosi criticamente con temi quali il luogo, la delocalizzazione o la specificità delle culture all’interno di una prospettiva storica. La mostra Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art (2008) curata da Okwui Enwezor all’International Center of Photography di New York, ha riunito le opere di importanti artisti contemporanei che utilizzano il materiale d’archivio come strumento per ripensare i significati di identità, Storia, memoria e perdita. In Post Human (1992), alFAE Musée d’Art Contemporain di Losanna e poi al Castello di Rivoli, Jeffrey Deitch si è reso conto che qualcosa stava cambiando e ha deciso di verificarlo con una mostra. Curate da Achille Bonito Oliva, Contemporanea (1973) è ancora oggi considerata una delle mostre più importanti del XX secolo, per il suo carattere internazionale, interdisciplinare e multimediale, mentre Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70 (1970) ha trasformato il Palazzo delle Esposizioni di Roma in un gigantesco contenitore multimediale. Information (1970)presso il MoMA di New York, curata da Kynaston McShine, si è proposta come un reportage internazionale sulla produzione di una nuova generazione di artisti a confronto con i mezzi di comunicazione di massa e le allora recenti innovazioni tecnologiche. Infine, impossibile non citare Live in Your Head: When Attitudes Become Form (1969), a cura di Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, considerata una delle più emblematiche e rappresentative dal dopoguerra a oggi, pietra miliare delle pratiche artistiche del suo tempo e ancora oggi utilizzata come prototipo di mostra al di fuori dei canoni classici; oppure Arte povera più azioni povere (1968), curata da Germano Celant negli antichi arsenali di Amalfi, tappa fondativa del movimento che rinnovò la prassi e l’immaginario artistico dell’Italia degli anni Sessanta in una prospettiva internazionale.

Esempi naturalmente non esaustivi, da cui si evince che la ‘distanza critica’ è, in effetti, un enigma[7], una fissazione, una presa di posizione aprioristica e una nostalgia rispetto a dinamiche tramandate dal passato. Da questi esempi è evidente che il vero enigma del soggetto rispetto alla propria teoria critica non può dipendere ancora da una distanza intellettuale rispetto all’oggetto, dal momento che sappiamo, sin dalle teorie moderniste e postmoderne, che questa distanza è destinata a scomparire, indipendentemente da coloro che ancora si ostinano a mantenerla in vita. La mostra, quando venga accettata, ideata e realizzata come dispositivo critico, si configura come un luogo di indagine inclusivo che funge da mediatore culturale e diviene attivatore e cassa di risonanza del presente per la collettività a cui si rivolge.


[1] W. Benjamin, Strada a senso unico, in Scritti 1926-1927, a cura di G. Agamben, Torino, Einaudi, 1983.
[2] T. De Mauro, Il Linguaggio della critica d’arte, Firenze, Vallecchi, 1965.
[3] G. Romano, Become a curator, Milano, postmedia books, 2019.
[4] M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Torino, Einaudi, 2000.
[5] D. Balzer, Curatori d’assalto. L’irrefrenabile impulso alla curatela nel mondo dell’arte e in tutto il resto, Monza, Johan & Levi, 2016.
[6] A. Troncone, La smaterializzazione dell’arte in Italia, 1967-1973, Milano, postmedia books, 2014.
[7] H. Foster, Il ritorno del reale, Milano, postmedia books, 2006.