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panorama

Domenico Ruccia

Bari 1986
vive e lavora a Milano
Studio visit di Lorenzo Madaro
27 marzo 2024

L’ossessione per la costruzione delle immagini ha spinto Domenico Ruccia ad abbandonare una carriera da avvocato – si è laureato in Giurisprudenza, seguendo inizialmente le orme del padre e del nonno – per dedicarsi alla pittura, che silenziosamente coltiva sin da quando è adolescente.

Tra le mostre recenti: le personali del 2023 da Ipercubo a Milano e alla collezione Pallavicini di Pavia, e la collettiva Non rimane che volare, a cura di Giuseppe Arnesano da Osservatorio Futura a Torino (2023), preceduta, l’anno precedente, da La curatela militante, a cura di Giacinto Di Pietrantonio e Federico Palumbo. Sempre del 2022 è la residenza in via Farini a Milano, che gli ha probabilmente consentito di meditare con più sistematicità attorno al suo percorso pittorico. Oggi credo che sia tra gli artisti più interessanti della nuova scena in città, anche per la sua autonomia rispetto a specifiche linee di ricerca che vedo eccessivamente in voga.

Cosa gli interessa? Lo vado a trovare nel suo studio, che condivide con alcuni compagni di viaggio. Osservando i lavori concepiti fino ad alcuni mesi fa – mentre quelli più recenti sono profondamente legati a una rilettura, anche ironica e scanzonata, di alcune immagini di Paolo Uccello – mi rendo conto che tutto il suo discorso è legato a una ricontestualizzazione di immagini e sensazioni provenienti da epoche diverse, una sorta di grande archivio di icone misconosciute della moda, affiancate a riferimenti cinematografici, storico-artistici e da un repertorio di ricordi della sua infanzia e della sua famiglia, come un vecchio giocattolo di legno appartenuto al padre da bambino. Gli piace partire dalla realtà, a Ruccia, da un dato di fatto (quindi anche da un’opera d’arte, come con Paolo Uccello), per poi inserire spaesamenti, slittamenti propedeutici per evidenziare le vicende parallele nascoste dentro taluni affiancamenti.

Mi dice subito che il filtro della sua tavolozza gli serve per appropriarsi e per far convivere alcune immagini apparentemente lontanissime. Fantozzi con Yohji Yamamoto, la nuova scena musicale newyorkese degli anni Ottanta con un cinema più sofisticato e poi ancora, in questo costante e compulsivo Atlas, le immagini estrapolate dalla storia dell’arte. Ruccia ci conduce costantemente in un viaggio, in un vortice ordinato e organizzato in specifiche caselle affiancate, tra repertori e suggestioni, visioni e contraddizioni, mai ovvie. È questo credo il fulcro primario del lavoro dell’artista: la sua sensibilità lo spinge a ricercare e a restituirci convivenze apparentemente improbabili, spingendoci a riflettere sulla genesi stessa di queste immagini, che si ritrovano in un piano comune.

Le sue sono ricognizioni di un immaginario, che è suo ma anche eventualmente nostro. A volte le immagini che rintracciamo nei suoi lavori sono già state adottate in precedenti cicli. C’è l’immagine di un’Italia attraversata dal boom economico degli anni Ottanta, da un patinato e grottesco spirito di entusiasmo, ma anche dal dramma e dalla dissoluzione.

I lavori recentissimi ci fanno comprendere quanto il lavoro di Domenico Ruccia non sia soltanto un discorso dentro la pittura, ma anzitutto dentro la genesi e la persistenza di alcune immagini, a distanza di epoche. Nella superficie apparentemente piatta delle sue tele compaiono così draghi ma anche maialini intenti ad accoppiarsi, mentre un paesaggio premetafisico, con una luce ovattata eppure immaginifica, costruisce un’architettura trasognante, impalpabile. Niente di surreale, il suo lavoro è reale nella misura in cui è setacciato da una memoria plurisecolare capace di rigenerare immagini, di rielaborarle, di restituircele con un proprio sguardo che è spesso denso di stupore.

La sfida sarà impegnarsi per uscire dalla staticità della bidimensionalità del quadro, preservando la forza intrinseca del suo linguaggio visivo e, soprattutto, del proprio immaginario. Per mantenere quella forza onirica felliniana – che non è surrealista, ma profondamente realista, in un certo senso –, Ruccia dovrà magari espandere le proprie immagini in una dimensione installativa avvolgente, totalizzante.

La forza del lavoro di Domenico Ruccia risiede proprio in quella sua vocazione verso la convivenza di mondi che rientrano in un determinato clima estetico, culturale, visionario e insieme reale, concreto, palpabile. La sua pittura è un grande viaggio in cui riconoscere le radici identitarie di una cultura italiana e internazionale che è profondamente radicata nella stratificazione tra folclore e ricerca, alto e basso, pluralità sofisticata e semplicità assoluta di forme, impostazioni, costruzioni. Sì, il lavoro di Domenico Ruccia è un lavoro di forme che si compenetrano, di piani che si intersecano, di vite reali o inventate che stanno assieme. Ma, in fondo, è così nella realtà.