Cerca
Close this search box.

panorama

Diego Miguel Mirabella

Enna 1988

Vive e lavora a Roma

Studio visit di Daniela Bigi

Aprile 2022

Incontro Mirabella di rientro dal Marocco. Poco prima era stato oltre un mese in Perù. Negli ultimi tempi il suo studio è a Roma, in quel contesto anomalo e ‘felice’ dell’ex Lanificio Luciani, tra il fiume Aniene e via di Pietralata, dove con altri artisti condivide i locali in cui negli anni Novanta Pietro Fortuna fondò Opera Paese. Ma in realtà è impossibile identificare il suo studio con un luogo fisico; semmai lo si può rintracciare nella somma, tutta intima, di alcuni specifici contesti che vive emotivamente, distilla letterariamente e attraversa corporalmente. E nei quali produce i suoi lavori.

Insieme parliamo del viaggio, dello spostamento, dello straniamento anche. Negli ultimi anni ha vissuto a lungo a Londra, poi a Bruxelles, a Palermo, ora di nuovo a Roma, e ha frequentato con continuità il Marocco. Non si tratta, ovviamente, di restituire la cronaca dei suoi soggiorni, non ci soffermiamo sul piano aneddotico-mondano della sua esistenza. Nel suo percorso leggo in realtà un inquieto peregrinare, che è parte integrante non solo della sua fisionomia di artista ma della sua stessa opera.

La sua erranza non è il viaggio esotico dell’amatore, né quello dell’etnografo, né tanto meno quello del turista. Mirabella non cataloga, non colleziona e non cerca reperti nel passato. Nella sua erranza vedo l’espressione di una disappartenenza e la ricerca di una condizione di quiete. E la quiete arriva quando dopo aver interrogato un luogo, dopo averlo perlustrato con il corpo, con la scrittura, dopo essersi concentrato sulle architetture e sui manufatti, finalmente matura l’incontro con alcune maestranze artigiane. È qui il fulcro di tutto il suo lavoro. Quelle maestranze, depositarie di tecniche e forme in cui si sono identificate grandi civiltà e intorno alle quali si sono riunite piccole comunità, parlano la lingua della decorazione, ed è con questa stessa lingua che l’artista sceglie di parlare oggi, forse proprio perché bistrattata, forse perché poco compresa nel suo pur vasto portato semantico ed esperienziale.

Ci confrontiamo diffusamente sul tema della decorazione, che esprime sempre una visione del mondo, che riassume e tramanda il bagaglio di valori sui quali una collettività si ritrova, valori fondativi, spesso rassicuranti: è «una trama tranquilla – dice l’artista – ma in quanto tale porta in sé un elemento di tragicità».

Mirabella è affascinato dalla temporalità lenta della produzione artigianale, ma ne avverte anche tutto il portato di sintesi, di coagulo simbolico e tecnico che di fatto è sempre il racconto di una civiltà. Che si tratti dello zellige marocchino, dei vasi di terracotta italiani, del mato burilado peruviano, del merletto a tombolo belga, degli argenti pakistani – tutte forme artigianali con le quali l’artista ha già realizzato, o ha in animo di realizzare, dei progetti – quello che emerge complessivamente è una lingua visiva che può ancora raccontare molto, e «gli artigiani sono un po’ come degli scribi».

In modo volutamente ermetico seppure decisamente circostanziato, con questa lingua Mirabella racconta fondamentalmente sé stesso, ma il suo viaggio di conoscenza, che è al contempo letterario, filosofico, di fatto sembra anche interrogare il senso di una condizione che ci accomuna nel presente.

Al momento il corpus di lavori più risolto lo ha realizzato in Marocco, dove grazie alla collaborazione molto stretta con alcuni artigiani ha messo a punto una produzione di mosaici di varie dimensioni, dove le griglie decorative dello zellige ospitano parole o piccolissimi inserti che appartengono a una narrazione personale, probabilmente segreta, che però proprio nell’integrarsi con l’impianto geometrico dell’insieme, nell’entrare in una comunione cementata con un testo visivo secolare e collettivo, genera affacci poetici imprevedibili. Lo stesso accade con le zucche dipinte dagli artigiani peruviani, i mates burilado che sono attualmente in fase di realizzazione. Me ne fa vedere un prototipo. La fitta decorazione che li caratterizza racconta da sempre della selva amazzonica e della sua anima misteriosa. Sono narrazioni potenti dentro le quali verranno inserite visioni e parole di un vissuto individuale gelosamente crittografato. La dimensione generosa e totalizzante di questa decorazione accoglierà gli elementi personali dentro un perimetro dallo spessore millenario, li decanterà dentro il respiro universale della selva, mettendoli al sicuro da possibili residui narcisistici e vezzi intellettualistici – ancora presenti talvolta nel suo lavoro – riconducendo il discorso all’essenzialità assoluta dell’umano sentire.