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panorama

Davide Sgambaro

Cittadella 1989

Vive e lavora a Torino

Studio visit di Edoardo De Cobelli

La generazione nata con l’avvento del digitale, oggi definita Millennial, vive all’interno di una costante contraddizione. Da una parte i problemi del presente e una radicale mancanza di prospettive, che si riflettono in maniera inedita sul vivere quotidiano. Dall’altra, l’idealizzazione di una vita parallela, espressa attraverso le immagini e i social media, che si scontra ampiamente con la realtà o, più semplicemente, risponde al desiderio di renderla migliore. Guardare l’arte di Davide Sgambaro è un antidoto nei confronti del disinvolto e simulato incanto che avvolge, come una coperta troppo corta, la costruzione narrativa del proprio io, tra recita e idealizzazione.

Le sue opere sono la testimonianza di un momento di noia, un elogio dell’insicurezza, una difesa del diritto a raccontare i sentimenti che, tra paure e incertezze, plasmano la condizione della quotidianità. Eppure, la sua pratica disinnesca il bisogno di proteggersi da queste paure e abbraccia la realtà dell’incertezza che fa parte dell’esistenza, attraverso una sagace autoironia e un sarcasmo spontaneo e naturale, misto tra il gioco infantile e la consapevolezza che non si è più bambini. La serie Parappaparaparapappapara (2019-2021) reca, su un lenzuolo di cotone, i segni di una manciata di M&M’s che rotolano perdendo il colore, dopo essere stati lanciati nel tentativo di centrare un bicchiere, che è facile immaginare poggiato su un letto. La recente serie di teche intitolate I Push a Finger Into My Eyes (Kiss, Kick, Kiss), racchiude, come l’immagine di un atto violento, l’esplosione di petardi e le loro tracce. Kiss, Kick, Kiss è una tecnica comunicativa per raccontare brutte notizie, come, ad esempio, un licenziamento. Una maniera di addolcire, tra lodi ed encomi, una rottura, una fine.

Le opere di Sgambaro sono sculture minime che accolgono l’imprevedibile, spesso il risultato di un’azione, il moto di un corpo mai visibile. Il suo lavoro, espresso, in fondo, attraverso metafore, sottili giochi di parole e riferimenti alla cultura contemporanea, è una pungente osservazione di una condizione collettiva quanto il racconto di un momento privato. Nell’opera confluiscono sovente entrambe, la condizione esistenziale dell’individuo con sé stesso così come della sua generazione nella società. Si respira l’atmosfera di una festa finita, la precarietà dei materiali fragili, il senso di un tempo perso. Il sabotaggio dell’imperativo positivista della società, rappresentato dall’emblematica emoji sorridente, spesso presente nelle opere di Sgambaro, ha però il sapore di un atto liberatorio, di uno smascheramento reazionario. 

Dopo la conclusione della sua prima mostra personale a Parigi, Davide Sgambaro sta ora terminando una residenza presso Manifattura Tabacchi, dove ha continuato la sua ricerca sull’estetica comportamentale, subita, interiorizzata e restituita attraverso quella che può essere, ad esempio, la mimica facciale del sorriso, un’autodifesa costante e utile di socialità. Ma anche il sospiro, azione quotidiana ancora più elementare, in questo caso di una lavoratrice della Manifattura stessa, che viene alterato dall’elio e riprodotto nella mensa dell’ex fabbrica, come riconquista di uno spazio di interruzione e di una pausa felicemente improduttiva.

Ciò che la sua pratica rischia di perdere, attraverso l’uso di riferimenti non sempre facili da cogliere, è l’immediatezza e la genuinità dell’opera, che rappresentano il vero punto di contatto e di incontro con l’osservatore. Ma questo è per Davide una possibilità da tenere in conto, quasi una sfida all’attenzione che decide di correre. Le opere, a prima, vista non rappresentano nulla, sono la cornice di un racconto, o le cronache di una narrazione che si è invitati a osservare, come spettatori esterni di sé stessi.