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panorama

Davide Mancini Zanchi

Urbino 1986
Vive e lavora a Urbino
Studio visit di Marcello Francolini

A Urbino v’è un certo ordine sparso di viuzze che infittiscono come una rete intricata di prospettive. La permanenza del tessuto rinascimentale assolutizza la città, al tempo, rendendola uno spazio ‘altro’. Arrivato al luogo dello studio, una volta dentro, sono invaso da una festosità anche metafisica di geometrie vaganti. Come un intero dispiegamento di solidi prelevati direttamente da qualche sogno di Euclide, incontrato più volte tra quegli Uomini illustri nello studiolo del Montefeltro. La metafisica accentuata dalla completa assenza dell’uomo, un po’ come avviene nella famosa e vicina Città ideale, tipizzazione unica della ridondanza astratta della pervicacia umbra. Lì è l’architettura, qui è l’oggetto che si pone come riordino dello spazio interiore. Una serie di monocromi squillanti dal giallo al blu al verde si alzano come sipari sull’azione possibile indotta dall’oggetto accolto di volta in volta. Ogni opera è potenzialmente un’azione di cura verso il proprio sé, da intendersi come proprio corpo o come proprio spazio. Dal quadro-abbronzante al poliedro-aspirapolvere, ogni opera della serie sembra ribaltare il ‘prelievo’ in un ‘innesto’, questa volta dal mondo dell’arte al mondo reale, dove forme puramente astratte come volumi e piani geometrici vengono oggettualizzati entro funzioni reali. Tutte opere facenti parte della serie del progetto Ready-Made (2018), installato al Museo Fattori di Livorno, una tappa importante nella ricerca dell’artista, soprattutto in quest’orizzonte d’inversione concettuale che gli ha aperto inedite soluzioni che, attualmente, stanno convogliando la sua ricerca verso un’estetica performativa. Prima di analizzare nello specifico i meccanismi di funzionamento che l’artista impiega per espandere i suoi contenuti, da apparenti pitto-sculture a veri e propri dispositivi mentali, converrà dire che tale complessità tiene dentro anche una serie di opere che indagano lo ‘spazio possibile’ tra l’artista e il dipingere. In questo si astrae l’atto stesso del dipingere e si traduce in una proiezione indiretta per ‘impressione’ esterna di ‘cose’. Per la serie Toys Are Us (2019), avrà forse trasferito una cucina dentro lo studio per poter usare ‘al dente’, diverse tipologie di paste per i suoi Spaghetti-paintings; Così come l’anno prima, per la serie Da che mani vidi Zan Cin (2018), aveva allestito un arsenale di fucili ad acqua per i suoi Super-liquidator-paintings. Così delle azioni specifiche vengono prelevate dal quotidiano per essere innestate entro un processo pittorico. Dalla temporaneità giocosa della chiazza d’acqua alla permanenza vibratile di chiazze di colore. Per i Cieli invece, così come per quello della Cappella Griccioli di Siena (2020), siccome trattasi di sostanza evanescente e trasognante, l’artista ha colto dall’azione fanciullesca che fa della penna una cerbottana a proiettili di carta, il modo di ritrattare pianeti e costellazioni, questioni legate ormai, a una conoscenza ‘simbolica’ tenuta, oggi, sempre più ai margini di una società iper-razionalista.

Di certo l’assunzione di tali pratiche a volte concentra l’attenzione dei significati sul gesto in sé, quanto più a volte dovrebbe dare ulteriori modi all’osservatore per espandere la movimentazione della mente e quindi di nuovi e ipotetici significati ulteriori possibilmente ancorabili. Strada, questa, che inizia a evidenziarsi negli ultimi lavori, quelli per la serie Mira il mare mà le, che è stata allestita al Centro Arti Visive di Pesaro (2021-’22), come una messa in scena. Ventisette sculture approntate in legno levigatissimo al punto da sembrare riflettente, innestate con oggetti concreti di cui viene fuori solo una parte: un ombrellino, una rondella di scotch, la scopa, lo scopino, un calice da vino rosso, un rastrello e tutti insieme ancora stanno lì disposti a idealizzare lo spazio geografico del proprio sé. La ‘casa’ come il proprio corpo, il ‘bagno’ come lo spazio proprio di autorivelazione, il ‘giardino’ come il lavoro per la propria conoscenza. In fondo c’è una linea di spiaggia continua, il mare è calmo, a largo si intravede un isolotto di tipo caraibico. Ogni tanto qualche bagnante passa, o una mano enorme irrompe sul primo piano. A guardare bene, l’unico tipo in canotta rassomiglia al Trevor di GTA5, e in Zanchi l’ha condotto sulla spiaggia registrando e trasportando così un’unità temporale di cinque giorni del videogioco, per ambientare le sue forme improprie di legni e cose. Ed ecco che la ricerca di Zanchi muove verso un comune sentire della ricerca attuale in Italia, improntata nella costituzione di continue tattiche da svolgersi nello spazio del nuovo paesaggio, inteso non più come un oggetto esterno, ma come un continuo scambio soggetto-oggetto tra diverse relazioni di significato.