Atri 1980
Vive e lavora a Roma e a Trani
Studio visit di Marcello Francolini
A volte si dice che la realtà supera l’immaginazione. Quest’affermazione, nel caso del lavoro dell’artista Dario Agrimi, sembra trovare una sua veridicità. In un ex capannone industriale, la monocromia esterna camuffata tra la calura verde bruna schiarata al sole pugliese, lascia il passo a un variopinto e trasognato teatro di marionette, stile The Muppet Show (1976). Non dico che le opere di Agrimi centrino nello specifico con Kermit, Miss Piggy, Gonzo o gli altri, ma che vi si riconosca una familiare attitudine a quest’ironia beffarda, che usa il fantoccio dell’uomo come transfer più liminare tra il corpo proprio e la sua figura, questo sì. Una generazione, quella di Agrimi, che è anche la mia, cresciuta in un superomismo fantasmagorico tra Terminator, Ken il guerriero, Doc di Ritorno al futuro, fino all’azzeramento del nuovo millennio che si apre con la ridondante domanda di Morfeus a Neo: «What is the real?». Dunque, una dote memoriale che vede nelle saghe cinematografiche il modo stesso di rispondere alla complessità del mondo, attraverso un sovramondo in cui i grandi valori smarriti del XXI secolo si figurano in allegorie di concetti concreti e affrontano le questioni più annose dell’animo umano. Qualcuno potrebbe velocemente categorizzare le opere per la loro apparenza iperrealista, ma sono poi le sue, veramente figure o piuttosto figurazioni di concetti? Ammettendo questo spostamento di sguardo dobbiamo allora misurare il tipo di concetti che sono queste figure. Se potessimo averle tutte insieme come nel teatro-studio sarebbe lampante il loro essere figurazioni di concetti impossibili, che proprio nella loro assurdità di ragionamento, troverebbero il senso solo nominandoli per figura. Così troviamo Non dice chi è (2015), il suo celebre uomo incappucciato e sospeso tra la caduta e l’ascesa. L’assenza del volto è l’unico indizio per muovere la mente tentando di colmare quel vuoto tra l’intenzione del titolo e la situazione ricreata dalla posizione della figura.
La fede è la soluzione più semplice (2019), presenta l’uomo rimasto intrappolato in una condizione mentale piuttosto che un qualcosa di concreto, riferendosi all’artigiano della commedia La giara (1916)di Luigi Pirandello. L’uomo che si divincola e cerca di uscire mostra quello che in termini aristotelici potrebbe definirsi un’azione in potenza, che nel titolo diventa atto. La fede personificata dall’omonimo oggetto è presente anche nelle recenti installazioni Sofisma e Voli pindarici (2022), dove i protagonisti sono due soggetti che non hanno niente in comune se non la fede nuziale e la capacità di affrontare la loro condizione di emarginati attraverso visioni e azioni estreme. Restando ancora su Sofisma (2022), la possibilità di tuffarsi da un trampolino di tredici metri in un secchio d’acqua è il risvolto del tipico numero clownesco, il cui sforzo consiste nell’allungare il momento di preparazione per non giungere praticamente mai al salto finale. Sarcastica immagine dell’uomo postmoderno che annaspa tra l’incessante ritmo dell’intrattenimento globale e la sua effettiva realizzazione. Tema che Agrimi affronta anche nella serie Mushroom (2022-2023), tavole su cui moltiplica un campionario di “brutte pose”, assurte da omini, più che uomini, ancora una volta feticci da immaginario cartoon, in un effetto cinetico-ossessivo simile a quello dei primissimi wall-paintend animation di BLU (2008). Eppure, tanta sagacia e mestizia non hanno ancora ripagato questa ricerca in termini di una seria e concreta attenzione critica, forse trattenuta da un certo ‘cattelanesimo’, visto, di contraltare, come l’adozione di semplici effetti-shock. Ma è un mondo ancora inesplorato, quello dell’uso del feticcio concreto, che in termini critici potrebbe riportare al centro la questione del carattere concettuale dell’immagine, il suo uso denotativo, il guardare.