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panorama

Cristina Cusani

Napoli 1984
Vive e lavora a Napoli
Studio visit di Alessandra Troncone

In una piccola stanza all’interno del suo appartamento, lo studio di Cristina Cusani restituisce la dimensione intima e raccolta del suo lavoro. Due scrivanie, un divano e una selezione di sue opere alle pareti delineano un luogo protetto, anche grazie alla presenza di Teddy che segue con lo sguardo tutto ciò che succede.

Cusani è nata a Napoli ma ha vissuto la sua infanzia e adolescenza a Roma, dove ha intrapreso un percorso di studi in Scienze della comunicazione prima di frequentare corsi dedicati a graphic design e fotografia. È tornata a Napoli per studiare all’accademia, cui ha fatto seguito la partecipazione alla prima edizione del LAB di Antonio Biasiucci, un programma di due anni dedicato a giovani fotografi che ha plasmato molti autori della scena napoletana negli ultimi anni. È qui che Cusani ha iniziato a esplorare in modo personale il linguaggio fotografico: i suoi progetti artistici implicano la fotografia ma, nella maggior parte dei casi, non è la sua mano a scattare. La sua ricerca si estende quindi a interrogare il ruolo dell’immagine e il valore che le attribuiamo nella costruzione (e nel ricordo) della realtà, rifiutando una funzione puramente documentativa del linguaggio fotografico per attribuirgli, al contrario, la possibilità di alterare lo svolgimento dei fatti, o comunque quella di offrirne una visione parziale e soggettiva. In questo contesto subentra anche la parola, che accompagna l’immagine per ‘tradirla’ o, in alcuni casi, sostituirla. Tra i primi progetti che seguono questa direzione vi è Abbecedario (2012-2014), sviluppato durante l’esperienza di LAB, dove a ogni fotografia è associata una parola per ogni lettera dell’alfabeto, in dialogo con l’immagine per assonanza o dissonanza, mentre in Me Before Me (2017-2019), una selezione di fotografie di famiglia traccia un percorso narrativo molto intimo che scandaglia la propria genesi familiare ma, allo stesso tempo, anche grazie alle brevi didascalie, trasforma il dato personale in una storia in cui tutti possono riconoscersi.

Dagli ultimi progetti emerge quindi un’altra direzione possibile che è quella dell’annullamento dell’immagine a favore del testo che tenta di descriverla: tale pratica si ritrova già in Quando la carta (2017), progetto per il libro di Vittorio Magrelli Dodici volte la carta, dove pubblica il retro di fotografie trovate, con didascalie e dediche scritte a mano da chi le ha possedute, o in La distanza delle cose irraggiungibili (2019), realizzato durante la residenza alla Fondazione Bevilacqua La Masa, che racconta l’impossibilità di fotografare Venezia, suggerendo di sostituire alle immagini turistiche il breve racconto di un’esperienza fatta in città. Il testo compare, ma stavolta non come protagonista, anche nel progetto Quando la neve (2020), lavoro sull’attesa, presentato in una doppia personale con Chiara Arturo da Intragallery a Napoli.

Al momento di questo studio visit Cusani sta preparando la mostra personale dal titolo Rilucere per la galleria Sabato Angiero a Saviano, dove presenterà un lavoro composto da fotografie antiche trovate, esposte mostrando il retro, per lasciare visibile la grafia originaria dei proprietari, insieme a un’installazione che include diapositive di foto di famiglia collezionate da persone conosciute, per inscenare un racconto collettivo sulla forza degli affetti. In quest’ultimo caso, la moltiplicazione degli elementi e la presenza di fonti non direttamente selezionate dall’artista insistono su una dimensione collettiva che vuole dialogare con un’attenzione più intimistica, un tratto portante del suo lavoro. 

La ricerca di Cusani si caratterizza per una grande sensibilità alle tracce lasciate dal passato e al loro potenziale narrativo. È apprezzabile la varietà di forme che prende, nelle sue mani, il lavoro fotografico ma anche la volontà di rinunciare a ogni tecnicismo per valorizzare il portato dell’immagine e non l’immagine in sé. A contrastare l’aspetto di una pratica troppo incentrata sulla formula ‘archivistica’, aiutano alcune direzioni meno evidenti del suo lavoro; da una parte l’incrocio con l’attività di fotografa di interni (come in Ritorni del 2012-2017), dall’altra la ricezione di urgenze del nostro tempo, nel progetto in progress Percepisco, a oggi più disorganico e ancora in fase di definizione, che parla di atrocità in atto, rifiutando così la formula del reportage e abbracciando un approccio evocativo quale altro modo possibile di documentazione.