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panorama

Caterina Morigi

Ravenna 1991
Vive e lavora a Bologna
Studio visit di Elena Forin
3 aprile 2024

Caterina Morigi ha studiato Arti visive all’Università Iuav di Venezia e Arti plastiche a Paris 8 Saint Denis. Oggi vive a Bologna anche se spesso i suoi progetti la portano altrove. La sua ricerca si nutre dello sguardo fotografico che ha sviluppato attraverso gli insegnamenti di Guido Guidi a Venezia, di una tridimensionalità costruita attraverso la sperimentazione di materiali e tecniche e di una necessità di analisi e verifica scientifica che prende le forme di una processualità declinata nei minimi dettagli.

Le sue opere attingono da tutti questi elementi e si completano nella relazione con i luoghi in cui sono allestite. La variabile del tempo, specialmente in lavori come Sea Bones (Layers) (2022), che impiegano la trasparenza e sovrappongono immagini appartenenti a diversi tipi di materia, agisce in maniera altrettanto decisiva sia come componente fisica ─ attraverso la luce e le sue variazioni durante la giornata ─ sia in una prospettiva più puramente concettuale.

Questo mettere in relazione la storia della natura, dell’arte e dello sguardo attraverso la fotografia, i materiali e le fonti digitali, si traduce in una specifica capacità di connettere elementi macroscopici e microscopici: è nell’equilibrio tra queste proporzioni e tra questi universi che l’artista trasmette il senso di una organicità trasversale umana, biologica e culturale.

In questo momento si sta dedicando a un progetto, Sea Bones, con cui ha vinto la dodicesima edizione dell’Italian Council (2023, in partnership con Quadriennale). Come spesso accade nella sua pratica, il confronto con figure professionali diverse è un momento necessario: questi dialoghi, cruciali per delineare la natura concettuale ed estetica dei lavori, hanno un peso fondamentale anche nell’individuazione del linguaggio specifico delle opere. Ogni suo ciclo, infatti, ha una fortissima coerenza interna e una natura visiva strettamente legata agli studi da cui si origina. Al di là della natura tecnica e delle tante fasi di approfondimento, Sea Bones nasce però, in primo luogo, dall’urgenza di dimostrare qualcosa che il nostro tempo sembra aver dimenticato: la compatibilità di elementi apparentemente diversi (una conchiglia, un riccio e uno scheletro) e la profonda relazione tra essere umano e universo naturale. Le diverse declinazioni formali con cui sta prendendo corpo questa ricerca si sono sviluppate, come si diceva, anche attraverso il dialogo con figure come Gabriela Graziani, ingegnera che opera nel campo della bioingegneria e della conservazione dei materiali lapidei e di ossa archeologiche, o con l’associazione Altreforme e Cam3D.

Tanto per le immagini al microscopio quanto per le stampe o gli oggetti, l’esperienza tattile è cruciale: in alcune opere di Sea Bones, sviluppate anche durante la residenza Et in Arcadia Ego promossa dalla Quadriennale di Roma e derivate da una analisi nella zona liminale tra acqua e sabbia e dallo studio di reperti conservati nel castello di Santa Severa, la particolare consistenza organica tradotta dalla stampante 3D si impasta con la capacità del plexiglass di reagire alla luce ingrandendo e distorcendo i dettagli delle superfici. Toccare queste opere è quindi come tenere in mano un reperto fossile di cui si coglie la densità e la potenza del suo appartenere a un momento, per quanto minimo, della storia del tempo.

Una genesi tanto coesa tra ricerca e formalizzazione può essere interpretata come una traduzione didascalica dei concetti in materia visiva.

In realtà, pur con il rischio dato dalla solida progettualità del suo fare, vi è un aspetto nella sua pratica che va a creare una frizione e che inserisce la variabile di un sensato disordine. Nei Crateri (2022) così come in 1/1 (2018), ad esempio, emerge con potenza la presenza di un dato illusionistico, di qualcosa nel materiale, nel segno, nella decorazione o nella consistenza che non è ciò che sembra. Una lastra di marmo è in realtà di porcellana e le sue striature non sono che un pattern digitale che mette a confronto le venature della pietra e quelle della pelle, mentre la porosità drammatica delle anfore è affiancata alla pulizia formale delle anse che riprendono il nitore di elementi architettonici, decorativi o naturali ─ per dire che l’arte con i suoi manufatti può mostrare, confondere, nascondere, far esplodere o confezionare in maniera ordinata e silenziosa le tensioni del presente e della Storia.