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panorama

Camilla Alberti

Milano 1994
Vive e lavora a Milano
Studio visit di Angel Moya Garcia
16 aprile 2024

La creazione di scenari alternativi di convivenza e collaborazione fra specie, l’ibridazione tra elementi organici e inorganici e l’interesse per le possibili trasformazioni ed evoluzioni nel nostro rapporto con il mondo emersi nel primo studio visit realizzato da Elisa Carollo, mi spingono a tornare da Camilla Alberti per approfondire come la sua ricerca trovi una formalizzazione coerente con la complessità degli argomenti considerati.

Il suo obiettivo è dare corpo a un immaginario in grado di accogliere diverse mitologie dell’alterità, narrazioni ibride, radicate nel mondo ma lontane dall’antropomorfismo. In questo senso, diventa suggestivo ancora una volta notare come la maggior parte degli artisti della sua generazione si stia muovendo su un territorio di urgenze e necessità condivise per cercare rapporti con un’alterità dilatata che si estende oltre i confini del corpo e che comprende altri organismi e forme di vita.

Uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Alberti è la capacità di creare innesti tra realtà, concetti e immaginari apparentemente distanti, come, ad esempio, quello di rovina ─ centrale in tanta storia e storia dell’arte dal XVIII secolo in poi ─ con l’olobionte, un organismo caratterizzato dalla convivenza simbiotica di agenti biologici che non condividono lo stesso DNA. Allontanandosi dall’accezione romantica del termine, la rovina si presenta nel suo lavoro come una trasformazione del vecchio, volta alla manifestazione del nuovo, come lo spazio in cui possono accadere le interrelazioni tra le specie o come il luogo dove i mostri, nuove forme di vita ibride che si fanno manifesto di una mutazione in atto, possono effettivamente vivere. La rovina, i suoi frammenti o il concetto stesso di abbandono diventa ciò che permette alla vita di succedere e di creare uno spazio decentralizzato, senza gerarchie e senza controllo.

Se i suoi primi lavori erano legati all’architettura, utilizzando materiale di scarto principalmente antropico, successivamente l’attenzione si è spostata verso l’ibridazione e nelle sculture dell’artista sono quindi apparsi muschi, alghe o piccoli insetti. Attualmente la riflessione viene indirizzata verso un aspetto narrativo in cui l’interrelazione e l’ibridazione sono convogliate in una ricerca sui mostri, sulle creature che non possono essere etichettate o classificate, ma che sono già presenti nella nostra realtà. In verità, in quest’ottica, il mostro diviene uno strumento narrativo che le permette di ripensare l’identità stessa del nostro corpo e la sua complessità. La ricerca più recente vede la collaborazione con l’Istituto di Biologia dell’Università di Graz e, in particolare, con il professore Martin Grube, per impiantare licheni sulla superficie di sculture realizzate in biomateriali. Il processo teorico di questa ricerca analizza come l’ibrido ceda il passo al mostro e questo all’olobionte, che di fatto è l’identificazione biologica del mostro, un organismo composto da più organismi, proprio come il nostro corpo. In questo senso, il corpo smette di essere inteso come elemento individuale per diventare ecosistema, in una transizione biologica più che concettuale che pone le basi per un cambio di paradigma nella nostra definizione identitaria. Una prima formalizzazione di questa ricerca è stata presentata alla Biennale di Malta dove ha esposto un lavoro in cui ha cercato di costruire il primo strumento effettivo di narrazione ibrida legata al non classificabile, all’oltre rispetto all’essere umano.

La conoscenza teorica e tecnica di Camilla Alberti potrebbe contrastare con la mancanza di controllo sul risultato finale dei lavori, con l’ibridazione involontaria che va a costellare le superfici e con l’eventuale imprevedibilità del comportamento dei materiali biologici. Questo dinamismo nei processi e di conseguenza nei lavori, potrebbero creare contrasti o perplessità all’interno di un sistema che ha sempre prediletto la staticità e la finitezza formale rispetto a qualunque possibilità di trasformazione, decadenza o indeterminatezza dei materiali.

Tuttavia, risulta evidente come nel momento in cui si ammette e si attiva una collaborazione con un organismo biologico non si possa pretendere di controllare il risultato finale. Alberti accetta il tempo di vita dell’altro organismo, che esiste all’interno di un paradigma completamente diverso rispetto al nostro, arrivando ad accogliere, senza compromessi e fino in fondo, il vero senso dell’alterità.