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panorama

Antonio Della Guardia

Salerno 1990
Vive e lavora a Napoli
Studio visit di Nicolas Martino
28 marzo 2024

Nel suo primo studio visit, Alessandra Troncone notava come «il fulcro della ricerca di Antonio Della Guardia» fosse «il rapporto tra l’essere umano e il lavoro» e come, dopo una prima fase in cui l’artista aveva «analizzato le dinamiche di potere e controllo infiltrate nell’ambiente lavorativo», il fulcro della sua ricerca si fosse spostato «sulle conseguenze del lavoro digitale».

Non sono moltissimi, in effetti, gli artisti che mettono al centro della loro ricerca il lavoro, provando a indagarne le trasformazioni e soprattutto le conseguenze psichiche e fisiche dentro un dispositivo come quello neoliberista che ha progressivamente identificato la vita umana con quella lavorativa, eliminando la distinzione tradizionale tra tempo lavorativo e tempo libero e trasformando così la nostra percezione dello spazio e del tempo. Ecco perché mi è sembrato particolarmente interessante continuare a indagare il lavoro di un artista che sviluppa temi cari anche ad altri, come per esempio Danilo Correale, napoletano trapiantato a New York, che è stato senz’altro una fonte di ispirazione soprattutto in una prima fase.

Della Guardia si concentra non tanto sul lavoro artistico, così come nella tradizione della ‘critica istituzionale’, ma sull’animal laborans, che ha riunito in un unico processo, al di là delle distinzioni arendtniane, lavoro, opera e azione. E qui l’arte diventa, oltre che strumento di ricerca dello stato di cose esistente, anche occasione per praticare forme di resistenza. Della Guardia, insomma, è interessato non solo ai meccanismi di potere che impongono un’educazione ai nostri corpi per renderli più docili al lavoro ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette, ma anche a quei meccanismi di resistenza che possono innescarsi dal rovesciamento degli stessi strumenti educativi messi in atto dall’ideologia aziendalista e auto-imprenditoriale.

Questo è evidente nell’ultimo ciclo a cui sta lavorando e che ha già avuto alcune tappe espositive, di cui una particolarmente importante al Museo Emilio Caraffa in Argentina. Si tratta di un’operazione complessa, articolata in tre capitoli, che prende spunto dal cosiddetto “Teatro d’impresa”, nato negli anni Ottanta del XX secolo e dalle sue tecniche, che ispirandosi all’interazione attoriale mirano a migliorare le performance lavorative. L’obiettivo di Non sapere, saper non fare, saper non essere, questo il titolo, è quello di riprendere tali tecniche, rendere evidente il loro funzionamento e quindi rovesciarne il senso, facendone fallire l’obiettivo. Imparare a essere disfunzionali e a interrompere il flusso continuo del nostro ritmo emotivo, oltre che lavorativo, diventa al tempo stesso un atto di resistenza e una prima fuoriuscita dal vicolo cieco nel quale siamo intrappolati. Se la pedagogia ci ha insegnato a essere imprenditori di noi stessi, l’obiettivo artistico di Della Guardia è quello di costruire una pedagogia alternativa che faccia saltare per aria la prima, non però cercando questa alternativa in un altrove collocato fuori dal dispositivo nel quale siamo, ma al contrario usando le armi del dispositivo stesso. Non è una differenza di poco conto, perché così facendo il lavoro si colloca su una linea che potremmo chiamare di “realismo materialista” vs un utopismo che tanta parte ha avuto nelle avanguardie storiche ma che ha finito, probabilmente per motivi strutturali, per essere politicamente neutralizzato. Non è, insomma, sognando mondi che non esistono che riusciremo a tornare a respirare, ma al contrario, guardando lucidamente questo nostro mondo e individuando di volta in volta quegli spazi che aprono alla possibilità di rovesciare i rapporti a favore di una maggiore libertà individuale e collettiva.

In generale, quello di Della Guardia è un lavoro filosoficamente e politicamente impegnato, ispirato alle ricerche del cosiddetto post-operaismo italiano, che per essere apprezzato richiede un impegno particolare. In questo senso è forse vero, come già rilevato da Troncone, che un limite di questa proposta potrebbe essere l’eccessiva freddezza scientifica messa in campo dall’artista. Un maggiore calore estetico ed emotivo potrebbe invece aumentarne la potenza comunicativa.

D’altra parte, studiare nelle sue varie articolazioni il mondo del lavoro contemporaneo è fondamentale per non subire passivamente la grande trasformazione antropologica che stiamo attraversando, e questo è senz’altro un punto di forza per una proposta artistica che voglia pesare e incidere nel contesto delle politiche culturali del prossimo futuro.

Foto dell’artista