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panorama

Annalisa Pintucci

Bari 1961
Vive e lavora a Bari
Studio visit di Lorenzo Madaro

In un piccolo ambiente del quartiere Madonnella a Bari – spazio sospeso tra i ritmi vorticosi della città metropolitana e il vociare convulso della vita di fronte al mare, che coincide con un repertorio neo-vernacolare – ha studio Annalisa Pintucci, una delle artiste residenti in Puglia più raffinate e interessanti, eppure spesso ignorata qui. Appartato lo studio, ma anche la sua personalità, nonostante un’attività di ricerca anche intensa, sin dalla metà degli Ottanta, mentre è più rarefatta l’attività espositiva, proprio per una sua attitudine schiva che la spinge anche a concentrarsi, a ordinare i suoi lavori in risme di fogli, tanto che durante il nostro studio visit me li fa vedere, spesso, come se fossero fotografie di famiglia, memorabilia di una vita intima, talvolta anche incorniciati come si fa con le immagini dei propri cari. Il 1995 è l’anno in cui avvia un dialogo con la galleria Marilena Bonomo di Bari, con cui collaborerà a lungo. Seguono poi alcune mostre collettive significative, tra cui Intramoenia Extrart, percorso diffuso nei castelli di Puglia, curata da Giusy Caroppo con la direzione scientifica di Achille Bonito Oliva (2009) e, in tempi recenti, da Viasaterna a Milano (2015) a cura di Fantom con Perfect pictures. Ma è in questo spazio ristretto che ogni giorno si dedica con una concentrazione estrema e un’assoluta eleganza del segno e del gesto a un lavoro minuzioso, pittorico, in cui affiorano i suoi registri visivi sempre uguali e sempre diversi.

Tali sembrano essere oggi, infatti, i cicli su cui si concentra con più impegno: con la gouache realizza palinsesti di immagini provenienti da un personale archivio, che si giostra soprattutto sulla bicromia. Come un’antica amanuense, e liberandosi di ogni tipo di relazione con il contesto storico, sociale e culturale della stretta contemporaneità, è come se copiasse costantemente sé stessa. Invero, nei suoi cicli si percepiscono sempre dei cambi di passo, processi minimi e a volte impercettibili, in cui si nota un cambiamento, una metamorfosi. Pietre intagliate, pesci, cascate, brani di paesaggio, bambini, pecore, fanciulli, visi: sono tutti elementi che appartengono a un immaginario caro alla pittura, che Pintucci preleva da un registro ampio in cui si confondono le epoche, si sovrappongono tra loro per formare un nuovo discorso in cui, con la cura di un miniaturista, esercita un ordine apparente.

La forza intima e sottesa alla sua ricerca sta nel non essere mai muscolare, nella sua capacità di relazionarsi con il micro (attenzione, non sono miniature ossessionate dal registro figurativo canonico, Pintucci non cerca mai la perfezione ma la suggestione, anzi il suggerimento), nell’impegno praticato costantemente nel silenzio assordante di una città che è epicentro di storie e di culture e che oggi vive una dimensione totalmente periferica e straniante. Annalisa Pintucci è una resistente, non soltanto per la capacità di reggere il peso di una città che dopo anni gloriosi (pensiamo alla presenza stessa della Galleria Bonomo), oggi vive una decadenza profonda di progettualità nella stretta contemporaneità; ma perché con costanza porta avanti il proprio discorso, la propria riflessione sulla genesi di alcune immagini che appartengono al complesso e immenso repertorio della storia dell’arte. Quei suoi pesci non vengono forse – anche – dagli affreschi delle antiche catacombe romane? Quelle pecore non provengono forse – anche – da certi mosaici paleocristiani? Quei volti non provengono da un certo espressionismo occidentale? Eppure, Annalisa Pintucci, non è una citazionista e nemmeno una nostalgica. In questo periodo l’artista sta lavorando a un ciclo di lavori – privilegiando sempre la carta come supporto per le sue tempere e i suoi acquerelli – in cui associa dettagli vegetali, piante grasse ritratte in interni anonimi, associate a elementi decorativi, dettagli di pavimenti tradizionali di un “Sud del sud dei Santi”, in cui l’ambiente domestico è il primo teatro antropologico in cui si svolge la fede, la vocazione e quindi la vita. I pattern astratti ritmano, nel pretesto del dittico, questi doppi dipinti, restituendo poi la vera e autentica vocazione della pittura di Annalisa Pintucci, ovvero la sua capacità di investigare sé stessa, di essere un medium attraverso il quale indagare le radici proprie del linguaggio.

Sembra paradossale, ma il punto di debolezza del suo lavoro risiede proprio nella sua timidezza: ecco, Pintucci dovrebbe vincere il suo carattere schivo e cercare anche di relazionarsi con formati più ampi, senza perdere la dimensione intimistica del suo tracciato operativo. Sarebbe interessante osservare i risultati di un simile tentativo. Nel panorama attuale rimangono di fondamentale importanza le ricerche di artisti come Annalisa Pintucci, perché attraverso la propria archeologia figurale riescono a tramutare l’immagine in un percorso di anti-narrazione, evidenziano il valore iconico di oggetti, elementi provenienti dal repertorio naturalistico e di specifiche immagini appartenenti alla storia stessa delle immagini. Come accadeva alla ricerca di Francesco Clemente e Luigi Ontani, negli anni in cui Pintucci esordiva con impegno, il punto di forza del suo lavoro è ancora concentrato sulla capacità delle immagini di generare senso, pensiero, evocazione di un mondo lontanissimo e ancora imperscrutabile in cui dovremmo immergerci.