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panorama

Andrea Sala

Como 1976

Vive e lavora a Milano

Studio visit di Paola Nicolin

Andrea Sala mi viene a prendere all’ingresso di via Martiri Oscuri 22. A questo indirizzo, sino alla fine del mese di maggio, rispondono eccezionalmente due anime del lavoro dell’artista, allievo alla Accademia di Belle Arti di Brera, cresciuto professionalmente in Italia e in Canada. Scendendo infatti la rampa che collega l’ingresso dell’immobile con il piano interrato, se giro a sinistra mi trovo all’interno del suo studio, condiviso con gli artisti Patrick Tuttofuoco e Alessandro Gabini, se invece mi volto a destra, lo sguardo intercetta la sua mostra personale, Pulisci i piedi e lavati le mani, allestita negli spazi della galleria Schiavo Zoppelli. Questa simultaneità tra studio e mostra, permette di entrare nell’opera e nel suo farsi. La temperatura dello studio – uno spazio denso e ordinato, puntellato di modelli, disegni, oggetti di design, scatole di pennelli, vernici, libri e permeato da una dimensione dialogica che in modo evidente intercorre tra chi lo abita –, si diluisce nello spazio nella mostra, costellata di oggetti-presenze collocati entro un’altezza coerente all’idea di fare della mostra un contesto semi-abitabile, che accoglie i sentimenti di chi la visita. Qui, dunque, si svela la natura del progetto artistico. E progetto, prototipo, modello, disegno sono d’altra parte parole-concetti attraverso i quali chi crea sintetizza l’idea di processo alla base di un lavoro artistico. Questo vale anche per Andrea Sala, che appartiene a quella generazione di artisti affascinati dalla cultura del progetto italiano e che, negli anni, ha saputo guardare a questo universo come fonte di ispirazione senza esserne intimorito. Nel caso di Sala è accaduto più volte: le relazioni con Alessandro Mendini e Achille Castiglioni, per esempio, messe in scena nelle sue mostre personali in galleria, così come il confronto con gli spazi di BBPR sono manifestazioni di un libero sentimento di appartenenza alla dimensione del domestico. Poteva fermarsi tutto qui, a questa relazione tra arte e design, tra forme, colori, superfici più o meno lucide, più o meno accessibili, più o meno accomodanti, più o meno essenziali. La novità del lavoro di Sala invece – e lo scarto che appare più chiaro proprio grazie a questa relazione tra studio e mostra – è l’attenzione data ai processi. Il suo rapporto con il design è cambiato – ed è in via di trasformazione si sarebbe tentati di dire –; il lavoro, in altre parole, è negli anni passato dalla elaborazione di geometrie e volumi liberamente ispirati alla cultura del design, alla ricerca sui processi che nascono dalla fascinazione dei materiali. Terracotta, tempere, bronzo sabbiato, acetato di cellulosa sono ingredienti da testare e mettere in discussione, non devono riprodurre un vocabolario minimalista o una forma radical, ma solo essere processati. Sala dice che questa attitudine è nata proprio durante il suo soggiorno canadese, dove la relazione diretta con gli artigiani non era più possibile. Tuttavia, entro le dinamiche evolutive del lavoro, sembra rilevante anche la sua frequentazione con il mondo dell’educazione e della trasmissione dei saperi. Sala insegna infatti da più di dieci anni alla Naba di Milano; tiene un corso di scultura che, mi racconta, è fortemente incentrato sulle “presentazioni” e, immagino, sui processi dialogici attraverso i quali un’idea diventa una forma più o meno conclusa. Anche senza scomodare la tradizione della scultura come conversazione, da Michael Asher a Charles Ray (nella doppia versione di insegnate e narratore dei processi scultorei), pare piuttosto importante sottolineare quanto l’insegnamento sia stato e sia per Sala una occasione di crescita e di continua frequentazione di giovani artisti che fanno di lui – spesso – un discreto sismografo del presente. In questa prospettiva i suoi prossimi progetti sono legati al dialogico come processo creativo: un talk all’interno della sua mostra, il 31 maggio, chiude l’esposizione con un gesto collettivo, mentre, durante il prossimo Salone del Mobile di Milano nello spazio di Alcova verrà presentata una serie di urne realizzata in collaborazione con Diego Perrone (e firmate come Ducati Monro) che fa parte del progetto urne.rip ideato da Vittorio Dapelo e Laura Garbarino. 

Qui e altrove i suoi ultimi lavori hanno peraltro trovato un contesto prettamente domestico per coniugare questa diversa reazione tra arte e design. L’intervento su un pavimento in marmo nell’abitazione di un collezionista si è trasformato in una colata di colore entro le fessure prodotte dalle operazioni di restauro; altrove, una serie di piedistalli che sorreggono una bacheca di libri si è trasformata in un campionario di forme ispirate ai cimeli dei gabinetti di curiosità, per cui non si capisce più chi ‘sorregge’ e chi è ‘sorretto’.