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panorama

Alessandro Vizzini

Cagliari 1985

Vive e lavora a Roma

Studio visit di Daniela Bigi

Conosco Alessandro Vizzini da una decina di anni. Ho sempre stimato la sensibilità con la quale, a partire da un habitat quotidiano fatto di forme e di funzioni, di architettura e di design, si soffermava a indagare i segreti degli oggetti, i temperamenti dei materiali, gli enigmi dei paesaggi, realizzando opere studiate, dove gli intenti dichiarati, le istanze di costruzione lasciavano spazio a quella componente un po’ sfocata, quella risorsa acuta del non detto che rappresenta ancora oggi, a mio avviso, uno dei punti di forza del suo lavoro. Complici, forse, gli studi che aveva fatto in Accademia, le riflessioni sulle relazioni visibili e invisibili tra microcosmo e macrocosmo. Mi incuriosiva la sua postura schiva di artista autenticamente concentrato nell’indagare discipline che interrogano i modi e il senso della condizione umana, dall’antropologia alla fisica, dall’archeologia alla letteratura esoterica. Recentemente ho rivisto il suo lavoro in una mostra al Pastificio Cerere che mi ha colpito per il vigore concettuale e per una dimensione estetica convincente per impatto e complessità, così ho deciso di approfondire e di incontrarlo.

Dopo un progetto di tale portata, che riunisce cinque o sei cicli di lavori a partire dal 2017, lo studio non può che essere quasi vuoto; c’è qualche pezzo iniziale di questi cicli (che Vizzini preferisce chiamare Scenari, perché effettivamente il suo lavoro si concentra innanzitutto sul paesaggio e sullo sguardo) che è rimasto volutamente fuori dalla proposta espositiva e ci sono alcuni piccoli quadri astratti che funzionano come dei meta-lavori, come «sguardi all’interno della pratica scultorea», mi dice, prima che la scultura stessa prenda una forma. Al  momento ci sono delle onde nel suo scenario.

Sta iniziando un nuovo corso di osservazioni e il problema che probabilmente si troverà a dover affrontare, dopo una mostra così articolata e così analiticamente restitutiva della sua poetica, credo sarà quello di definire quale senso e quale struttura attribuire al rapporto tra il pezzo singolo e la serie, tra una singola osservazione e il pensiero nella sua complessità. Nel dialogo affrontiamo insieme diverse questioni. Per esempio il paesaggio, che è appunto il suo focus primario, il luogo fisico e concettuale entro il quale verificare la relazione tra sé stesso (memoria, intuizioni, reazioni al costruito, idee della Storia) e la realtà concreta dei siti urbani e naturali di cui fa esperienza, con le loro peculiarità formali, le loro trasformazioni, il valore simbolico che li pervade. Parliamo a lungo anche di materiali. Li sperimenta nelle loro processualità, nelle potenzialità mimetiche, ne indaga l’origine e il valore semantico, ma soprattutto ne testa la flessibilità a ibridarsi, lavorando a connettere elementi naturali con nuove suggestioni che provengono della tecnologia. Concentrandoci su alcuni dei suoi Scenari emerge inoltre la centralità del pensiero del tempo, ed era chiaro anche in mostra, in quella costruzione di una atemporalità immersiva che costituiva la somma di temporalità specifiche differenti, personali e collettive. Una somma di temporalità di vario spessore e di varia provenienza che conduce a un’astrazione coesiva.

La sua origine sarda, la componente palermitana, i lunghi anni a Cagliari, l’introiezione di una visione mediterranea del mondo (che oggi affiora in modo ineludibile); poi la lunga esperienza a Roma, fin dagli anni dell’Accademia, il confronto meditato con i valori storici e plastici del suo tessuto urbano; successivamente il contatto con alcune grandi realtà europee in cui ha risieduto, tutto questo, filtrato dalla frequentazione del mondo virtuale, del web, dei social, trova oggi una sintesi consapevole in sculture-oggetto che si muovono in una fertile terra di mezzo tra scultura e design, veicolando, o talvolta stimolando, un immaginario  pronto ad alimentare la componente narrativa del lavoro. Astrazione e narrazione.

È giusto ricordare come nel suo lavoro – e lo si comprendeva anche in mostra – la dimensione esperienziale portata fino al limite della deriva situazionista, l’osservazione del paesaggio approfondita fino a diventare procedimento psico-geografico, la manipolazione dei materiali dentro un ambiguo regime dialogico tra naturale e artificiale, puntino fondamentalmente alla stimolazione dell’immaginazione. E credo che, di concerto con la sua energia inventiva, questo élan immaginifico, che poggia sulla sovrapposizione di vaste temporalità e colti bacini di forme, è sicuramente il maggior punto di forza del lavoro di Vizzini, impegnato a interrogare, ma anche a contemplare, e talvolta a ribaltare i legami essenziali che uniscono l’essere umano al proprio habitat.