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panorama

Alessandro Brighetti

Bologna 1978
Vive e lavora a Bologna
Studio visit di Marco Scotti

Tra i magazzini e i capannoni della zona artigianale di San Lazzaro di Savena, appena alle spalle della via Emilia alle porte di Bologna, è incastonato lo studio di Alessandro Brighetti, uno spazio ex industriale introdotto da una piccola struttura che funziona da anticamera, cucina e piccolo salotto delimitando l’ingresso, e chiuso da un prezioso giardino alle spalle che guarda ai campi. Oggi è un ambiente condiviso con altri due artisti, Paolo Bufalini e Valentina Furian, quest’ultima arrivata qui di recente, in occasione della seconda edizione di Nuovo forno del pane, iniziativa del Comune e della città metropolitana di Bologna che prende le mosse dalla prima esperienza nata al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna nel 2020 e poi portata nei distretti intorno alla città. Una vivacità culturale che si affianca alla regolare organizzazione di eventi e concerti tra queste mura.

Il lavoro di Brighetti, che nell’ultimo decennio si è concentrato sul rapporto tra uomo e ambiente, senza rientrare nel grande ambito culturale dell’ambientalismo ma cercando un focus specifico, ha bisogno di questi volumi. «L’imprinting culturale di mia mamma, che è biologa, mi ha insegnato a prendermi cura dell’ambiente. A partire dalle piante nel piccolo spazio verde dietro lo studio». La componente scientifica non entra però nella sua ricerca, che prende invece i propri fondamenti culturali dall’antropologia. «Questa identificazione tra uomo e divinità – e in senso lato quindi tra l’uomo e il proprio ambiente – che porta con sé anche una profonda componente animistica, nella società attuale non è possibile». Brighetti parte da questa consapevolezza per portare avanti la sua ricerca, confrontandosi principalmente con i linguaggi della scultura e del video, ma fondamentalmente muovendosi tra questi a seconda delle premesse poste.

Dopo diverse serie dedicate all’ambiente in cui l’uomo vive, attualmente è il totemismo il centro del lavoro dell’artista. «Per me è un’oggettivazione di questo rapporto, una rappresentazione di una connaturalità dinamica tra uomo e ambiente». Ci sono diverse componenti riprese dall’antropologia, in primis la relazione con l’idea di divinità «I clan eleggevano il proprio totem – e quindi il proprio dio – identificandolo nella fauna, nella flora o in una entità astratta. E se ne prendevano cura, in modo che l’ambiente in cui viveva questa rappresentazione del divino fosse tutelato. Questo mi interessa, piuttosto che la dimensione sociale del totemismo, che è comunque strepitosa».

I suoi sono lavori che partono dall’utilizzo di materiali usati, condivisi e partecipati, guardando ad aspetti specifici del mondo naturale e ad azioni essenziali dell’agire umano per mettere in luce drammi e contraddizioni. Durante l’ultima edizione di ArtCity, nell’orto botanico di via Irnerio a Bologna, per la mostra Menage a deux – Menage a tous ha installato i suoi totem in grande scala affiancati da un video – Smokeocene, composto interamente di footage recuperati dalla rete rappresentanti fumo in tutte le sue forme, con un sonoro di colpi di tosse sempre più intensi –, da esili bastoni sciamanici mutuati dalla tradizione chapateca e da un’installazione audio, Mama, una voce posta all’interno della cavità di un albero secolare. Un discorso articolato sugli equilibri tra umano e non-umano, teso a evitare ogni retorica grazie a un approccio radicato negli studi.

Il totem contemporaneo non può ovviamente guardare a una spiritualità che non appartiene più alla nostra cultura: la scelta di Brighetti è quella di pensare degli anti-totem, che rispondono a una mercificazione, a una funzionalizzazione del mondo naturale. «Trovo singolare che gran parte dell’umanità consideri la terra un reticolo di asfalto. È ovvio come questo materiale poi si faccia carico di una simbologia di sopraffazione. Non ho risposte, non ho idea di come si potrebbe instaurare una nuova consapevolezza».

Quello di Brighetti è un lavoro che vuole mettere in crisi, ma soprattutto cercare di parlare in maniera spirituale di come rapportarsi in questo momento storico con il proprio ambiente. «Viaggio spesso, in luoghi densi di natura e umanità, è da qui che nasce la mia passione per l’antropologia. In molti dei miei viaggi ho imparato a costruire tetti secondo le tecniche autoctone: con il fango, con le fibre, con le pietre o con elementi vegetali. Ecco, in futuro vorrei fare un lavoro sui tetti dell’umanità, sul rapporto che ogni popolazione ha con il ripararsi e con la propria terra».