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panorama

Alberto Tadiello

Montecchio Maggiore 1983

Vive e lavora a Sedico

Studio visit di Paola Nicolin

Uno studio, una casa-studio, un laboratorio, una officina, un deposito, un ex panificio della fine degli anni Novanta sovrastato da uno spazio disabitato: scrivere dello studio di Alberto Tadiello significa stilare una rassegna di luoghi del fare con le mani, di un lavoro artistico necessario, come necessario può essere solo il pane. Ed è lo stesso Tadiello che mi immerge nel suo universo asciutto dicendo che «… nessuno ti chiede di fare l’artista. Nessuno ti cerca. E oggi la condizione di auto-promozione insita nel lavoro dell’artista è per me un aspetto difficile da accettare. Fare arte è una tua necessità. È una mia necessità, che comporta un alto livello di rischio». Il suo studio è uno spazio generoso e ampio, «un luogo dalla Natura vagamente autentica. Marca il resto, certo. Eppure, questo luogo per me è matrice di un ragionamento. Implica uno sguardo disciplinato, un avanzare, un tempo, una pausa, chiede regole e costanza». Sono sempre stata affascinata dalla precisione lessicale attraverso la quale Tadiello si racconta. Le sue parole sono affilate, chirurgiche, essenziali, pronunciate con il tono giusto nel momento giusto, alle quali è spesso fuorviante aggiungere altro – Tadiello è capace di descrivere infatti il suo lavoro senza spiegarlo. È un talento naturale, qualcosa che non si può imparare e che, in relazione alla sua pratica, è più facile paragonare all’indole dello scalatore, dell’alpinista classico, come lui stesso ama definirsi, che per sopravvivere alla parete deve mettere un chiodo nel punto giusto. E Tadiello arrampica da sempre. Le sue sono opere asciutte, a volte scarne e molto poco inclini al compiacimento; prendono forma attraverso l’impiego di materiali industriali, come cavi elettrici, conduttori, dispositivi elettronici che l’artista plasma, intreccia, modella come creta per ottenere forme plastiche. Suono e forma sono un tutt’uno: la materia inerte riprende vita sotto le mani dell’artista demiurgo e di nuovo respira, a volte ferisce con la sua eco di fatica e sofferenza. Alberto Tadiello appartiene a quella generazione di artisti maturati dentro gli anni smaglianti della Facoltà di Design e Arti dello IUAV, dove conclude gli studi nel 2007. Da lì in poi, infaticabile, colleziona una sequenza importante di residenze internazionali e rispettivi studi dove l’artista ha vissuto (Antonio Ratti, Dena, Gasworks, ISCP per citarne alcune) che gli permettono di ottenere riconoscimenti importanti in istituzioni e gallerie, in mostre personali (come quelle alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia nel 2009, al Museo di Villa Croce nel 2012 o alla galleria T293) e collettive (presso la Fondazione Sandretto di Torino, la Fondazione Prada a Venezia o ancora ICA di Londra). Sono, queste mostre, spesso focalizzate su percorsi tematici dedicati all’emergenza del suono come elemento scultoreo, di cui Tadiello è un sofisticato interprete. Sin dagli esordi, l’artista ha scelto la scultura come suo principale linguaggio espressivo e i materiali industriali, il più delle volte legati ai sistemi di conduzione dell’energia e dispositivi dismessi, come fossero blocchi di marmo e stoccaggi di cera persa. Tadiello impasta questi elementi perché, in fondo, di carne e ferro siamo fatti. Ricordo, per esempio, di aver visitato nel 2009 una mostra collettiva allestita nelle valli sperdute di Perarolo di Cadore (Perarolo 09) dove il suo contributo era stato quello di posizionare sull’altare della chiesa del paese una enorme tromba-organo (l’opera HL) realizzata attraverso l’assemblaggio di elementi industriali in metallo (lamiere e profilati metallici, tubi in pvc, compressore ad aria, clacson, pneumatici) così da ottenere una sorta di fiore metallico che emetteva un afflato meccanico struggente. Un misto di poesia e violenza, attrito e distensione caratterizza, d’altra parte, ancora oggi il suo lavoro, anche se negli ultimi anni l’indagine si è fatta più matura. Tadiello è passato dalla macchina al cuore, per riflettere sulla natura intima e biografica del fare arte: non solo marchingegni e trame elettriche ma anche volti, corpi, intrecci di inquietudini che disegnano una emotività cresciuta che racconta l’anima.

La serie Inoculati del 2018 per esempio – disegni di grande formato, realizzati con matite colorate, pastelli a olio, rossetti, cere, carboncini, grafite, cenere, impregnante, distesi su pannelli di truciolare pressato, sono segni che si sovrappongono con lo stesso movimento. Si ripetono per centinaia di volte con insistenza, ossessione. «Inoculati sono dei volti. Sono il risultato di tre anni di ricerca. Avvolgono nella cavità dei loro sguardi, della loro bocca, una densità di pensieri, di appunti, di schizzi» dice d’artista. Il ruolo del disegno è centrale nella sua pratica. Disegnare è stato ed è, per Tadiello, darsi ancora una regola, dedicarsi a una pratica e trasformare un esercizio ricorrente in una generazione di idee e forme aperte.

L’arte di Tadiello è – sempre stata – estrema, non ultimo proprio in relazione a una marginalità scelta, un essere in alto, sui monti, forse per non smettere di interrogarsi sul senso del fare arte lontano dalle “vallate inquinate” e di rapportarsi in modo asciutto con la natura che si fa parete da scalare. 

Così nell’era della bulimia del digitale – che spesso sposa l’etica green di una natura vissuta come emergenza, come urgenza estrema appunto – il lavoro di Tadiello appare come un faro nella notte: per l’artista è inconcepibile l’idea di una delega alla produzione diretta, figuriamoci il codice a barre, e tuttavia permane in più di quindici anni di lavoro un discorso solido e di senso sulla relaziona tra arte e tecnologia, post-industriale e post-concettuale, insomma cavi e dispositivi elettronici che parlano di anime perse, sofferenze, isolamento e rischio, baratri della psiche e società connessa, di necessità di fuga e di spazio, di sfida, rischio, frustrazione, disagio, ingaggio. 

La scala delle opere negli anni si è espansa in volume, in complessità. Ne è un esempio l’opera Luciferarsi, progetto in corso di realizzazione a Napoli all’interno del premio ALA for Arts, dove natura e tecnologia trovano una loro sintesi. «Luciferasi è un tentativo di rivelazione –  mi spiega Tadiello –. Il lavoro si propone di rendere visibile l’andamento dei flussi di dati internet che scorrono all’interno dell’edificio e dell’azienda ALA, attraverso l’aumento e la diminuzione dell’intensità luminosa di una struttura di punti led». L’opera trae spunto da alcune manifestazioni luminose e relative connessioni temporali. Il pulsare magico e vitale nell’addome fluorescente delle lucciole, lo straordinario eliotropismo dei girasoli – che girano la testa tutto il giorno cercando il sole – il sistema comunicativo del krill negli oceani, per esempio, sono riferimenti per il lavoro. «Il funzionamento viene tecnicamente gestito da un dispositivo elettronico in grado di tradurre e di convertire in tempo reale gli andamenti di upload e download in relativi andamenti di aumento e decremento di intensità luminosa. L’installazione è pensata come una sorta di neurone, di sinapsi, di architettura floreale in grado di rivelare costantemente l’attività nevralgica di un lavorio incessante, di quel fermento di scambi e di bit che si diluiscono nella quotidianità̀ e segnano il nostro tempo». Nulla da aggiungere.