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panorama

Adonai Sebhatu

Bologna 1986
Vive e lavora a Bologna
Studio visit di Marcello Francolini
15 marzo 2024

Arrivo a Bologna, sceso in stazione mi dirigo nell’area ex scalo ferroviario del Ravone, dove da un po’ di tempo è in atto un esperimento di rigenerazione urbana con il distretto multifunzionale DUMBO. All’interno, diversi spazi sono affittati da una pluralità di realtà creative e produttive, dalla progettazione architettonica a quella di eventi, a quella informatica e artistica. Entro nello studio di Adonai Sebhatu, bolognese di origini eritree che sembra assumere la componentistica industriale come rimodulazione di un proprio universo simbolico.

È l’artista stesso che sostiene una tesi interessante secondo cui per quelli nati negli anni Ottanta esisterebbe una condizione di naturale conflittualità con il nuovo mondo media-fisico, e questa impossibilità di accettazione completa produrrebbe un vuoto, una mancanza, una distanza riflessiva rispetto alla multimedialità. Alla luce di ciò, le sue opere intessono con la nuova realtà tecno-scientifica un rapporto di contemplazione piuttosto che di coinvolgimento diretto.

Questa distanziazione provoca una evidenza percettiva che lascia tornare al centro l’urgenza di riadottare la pittura come sguardo contemplativo capace di afferrare non la forma come apparenza, ma come essenza. Ecco che l’importanza di tale ricerca consiste nell’esibire la pittura come luogo in cui vivere un’esperienza totalmente concettuale, direttamente prodotta dalle possibilità mistiche della mente umana, non filtrata da nessuno strumento mediale. Tutto ciò, attraverso l’adozione di un complesso geometrismo non euclideo, che costruisce le volumetrie attraverso i modi del design generativo e dell’odierna infografica.

L’attuale fase di ricerca sembra aver spinto sempre più l’artista verso l’adozione di un procedimento formale di tipo simbolico-linguistico. Per l’appunto al centro della parete d’ingresso v’è un’opera dal titolo epifanico, Attacco dei Titani (omaggio agli dèi inattuali di Jungher) (2023), che testimonia di un tentativo di reagire a questa impossibilità di tradurre in forma le cose. Il testo omaggiato è Prognosi, scritto in occasione della 45a Biennale di Venezia (1993), curata da Achille Bonito Oliva; gli dèi inattuali sono i Titani, il caos, che all’alba del nuovo millennio avrebbero preso il posto degli dèi tradizionali, causando così l’impossibilità di una rappresentazione formale del mondo. Nowhere (2023), ad esempio, sembra letteralmente eseguire un gioco mentale che, attraverso l’assemblaggio di forme e componenti elettroniche, ricostituisce la forma di un idillio campestre. Ancora sul tema del paesaggio, da intendere come un processo di traduzione iconica della realtà, l’opera I Ways (2022-2023) si dispiega come una mappa di reti relazionali che per analogia divengono gli orientamenti e gli scambi di forza tra le diverse forme nello spazio sociale.

Nello sviluppo della fisiognomica del Seicento è stata fondamentale l’insistenza sulla qualità dei dettagli, per aumentare quel senso di astrazione delle condizioni interiori cui alludeva, per analogia, l’intera impalcatura pittorica. A mio avviso, se l’artista volesse rientrare nella dimensione di una pittura altamente simbolica e riconoscibile dovrebbe aumentare la dimensione e il gioco del camouflage, così come appare più evidente da alcuni ultimi lavori che si spazializzano nell’ambiente.