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panorama

Alessio Gianardi

La Spezia 1983
Vive e lavora a Ravenna

Studio visit di Riccardo Venturi

Per chi ha familiarità con le immagini fotografiche a partire dal digitale, o per chi ha avuto il tempo di servirsi dell’analogico con un approccio da mero consumatore, fedele al celebre motto della Kodak «You press the button, we do the rest», ascoltare Alessio Gianardi può essere sulle prime disorientante. A sperimentare con questo medium sono stati spesso autori provenienti da altrove, come August Strindberg; si possano produrre fotografie in assenza della macchina fotografica e in assenza del fotografo; lo scatto non coglie affatto quel momento decisivo su cui ha insistito Henri Cartier-Bresson; lo scatto non immortala un momento, capace com’è di offrire solo una memoria evanescente ed effimera, come la stoffa dei nostri ricordi. Entrambi si deteriorano piuttosto che fissarsi. In quanto organica, l’immagine fotografica infatti ha una scadenza: esposta al sole dura tot anni. E le cianografie – una tecnica che l’artista non cessa di esplorare al di là delle tipiche immagini blu (le sole che si possono ottenere) – sono meno contrastate già dopo un anno.

Gianardi, che oggi usa la macchina fotografica solo per documentare i suoi lavori, si serve della fotografia in modo non canonico, e quando pronuncia questa parola io non posso far a meno d’intendere anche Canon. Il suo modo di lavorarla non è finalizzato alla realizzazione di un’immagine, ma si risolve invece nel processo di realizzazione e manipolazione di diversi materiali. Al riguardo, sono più interessanti gli errori commessi che il risultato, perché da tali errori nel manipolare la materia può nascere il progetto piuttosto che da un’idea astratta. In fondo, mi ricorda en passant, cucina e fotografia, perlomeno quella analogica, sono legate a doppio filo: si dosano gli ingredienti, si calcolano tempi precisi da rispettare, e poco importa che siano quelli di arresto e fissaggio della fotografia o quelli di cottura. Così facendo slega la fotografia dalla sua evoluzione in quanto medium tecnologico, tentando un approccio vicino alla storia naturale in cui si riparte dai suoi componenti.

Nel 2021 è invitato a esporre alla ex Ceramica o Nuovo opificio Vaccari per le arti a Santo Stefano di Magra (La Spezia), in occasione di Cantieri Creativi, un progetto finanziato dall’Unione europea, Rescue European Week. Regeneration of disused industrial sites through creativity in Europe. Il risultato è Padri (John Herschel, Renzo Gianardi), un’installazione sugli esperimenti di Herschel sulla fluorescenza e sul cianotipo. Così mi sono imbattuto nel suo lavoro. A interessarmi da subito è il suo rapporto con la dimensione geologica al punto che, nel catalogo in corso di stampa, non ho esitato a metterlo a confronto con Geologia di un padre, il romanzo autobiografico di Valerio Magrelli.

Solo di recente, tuttavia, sono venuto a conoscenza della sua idea originaria per l’ex Ceramica Vaccari, sorta di terzo paesaggio, come lo definirebbe Gilles Clement: distribuire all’aperto ammassi di gelatina cianotipica (Petite mort), abbandonandoli come fosse un materiale di scarto. Gli ammassi reagiscono alla luce solare e si auto-sviluppano in superficie con la pioggia. La materia, infatti, esponendosi al sole e caricandosi di luce, si sviluppa con l’acqua e trattiene l’immagine grazie alla qualità isolante della gelatina.

Immagino che pochi di voi abbiano mai visto o abbiano perlomeno un’immagine mentale di un ammasso di gelatina cianotipica. Per incuriosirmi, e come a dimostrare che la geologia è sempre dietro l’angolo e non l’abbiamo abbandonata per il solo fatto di parlare di fotografia, Gianardi mi dice che somiglia a un sasso vetroso, “come se fosse opale”. In effetti ha una lucentezza vitrea che può far pensare al vetro di Murano, sebbene sia molle al tatto. Non solo: del geologico, questo intervento non ha la scala temporale perché, esposto al sole, l’ammasso si scioglie diventando presto una pozza. È una sorta di scultura fotografica con un’esistenza stimata dall’artista di circa tre giorni.

Già abituato a trattare con gli agenti atmosferici, gli interessa il fatto che gli stessi elementi che realizzano l’immagine la deteriorano. Il sole e la pioggia la creano, il sole e la pioggia la disfano. E se in fondo la fotografia, mi dice con una formula che convince subito entrambi, non fosse altro che un “melodramma della materia?”. «Se vedi al microscopio qualsiasi emulsione fotosensibile, fatta di sali o di ferro o di argento o di platino, il risultato è una distesa di pietre, come una spiaggia». Insomma, più che la fotografia, a interessare Gianardi – che ha una solida formazione da fotografo professionista – è la vita delle immagini, se non una ‘biologia delle immagini, che resta da costruire. Un fenomeno vitale, transitorio quanto vivente, un ciclo generato dalla terra e che la terra si riprende col tempo. Come in Petite mort, dove il materiale fotografico si camuffa da scultura geologica e, in balia degli elementi, è pronta a recitare il suo melodramma.