Cerca
Close this search box.

panorama

Matteo Coluccia

Neviano 1992
Vive e lavora a Firenze
Studio visit di Angel Moya Garcia

«In questo momento non ho uno studio per cui facciamo un viaggio». Inizia così lo studio visit con Matteo Coluccia che mi invita a salire sul retro di un furgone parcheggiato, ma ancora con il motore acceso. Chiuse le porte, bussa verso la cabina e il furgone parte. All’interno una scrivania, un computer, due sedie non ancorate e pochi lavori per concentrare lo studio visit sul racconto e non sull’immagine. Matteo è un artista visivo che utilizza media tradizionali in una versione ambigua, ridotta e meccanizzata; fintamente popolare per replicare, con eccesso o difetto, dinamiche esperienziali, sociali e di costume, sminuendo la centralità dell’individuo nella carica espressiva del presente.

Il suo lavoro si concentra nella creazione di immagini piacevoli, ma che in realtà affondano le radici in una materia oscura a livello estetico e che vengono articolate attraverso fattezze artigianali per depotenziare quello stesso desiderio dell’immagine perfetta.

Nel contesto dell’arte attuale emerge innanzitutto il lavoro sviluppato intorno all’uso del costume e la necessità di minare la creazione di un’immagine. Nelle sue performance ci sono elementi accattivanti che non attaccano, ma che richiedono un coinvolgimento diretto, uno scambio in cui la violenza viene utilizzata come mezzo, per esprimere quel negativo che resta fuori dalla scena. Una componente seducente in cui il dolore sblocca l’esperienza estetica. Il lavoro si inserisce e parte soprattutto dal contesto performativo pop londinese, in particolare l’utilizzo di costumi fatti a mano e lo stile macabro-carnevalesco come marchio di fabbrica di Monster Chetwynd, insieme alla tradizione italiana dell’impiego delle maschere come nel caso di Luigi Presicce, con cui ha creato un sodalizio artistico e umano.

Una delle sue performance più recenti, “9”, si articolava attraverso una scenografia sottile: due grandi salami a mo’ di calzari indossati dall’artista, un cane e il suono ripetuto di un’unica parola: nein. Una performance durevole in cui l’animale attendeva un suono che gli consentisse di addentare il salame; tuttavia, il gioco linguistico manteneva l’attesa attraverso la ripetizione di quella parola. La durata veniva scandita dalla lettura costante di un copione, sulle cui pagine era riportato il numero nove. Quella che inizialmente appariva come una negazione del tedesco si rivela essere una cifra dell’inglese: nine. Un’altra performance, Piton de la Fournaise, vedeva due individui con dei costumi di testicoli che fumavano mentre si aggiravano per lo spazio in maniera nervosa. Qua era lo stesso pacchetto di sigarette a determinare la durata di un’azione che celava la necessità dell’artista di creare delle immagini piacevoli o comiche, ma che nascondono qualcosa di negativo o nocivo come, in questo caso, l’inondamento di fumo che era presente alla fine della performance. L’intreccio o l’ibridazione tra l’aspetto performativo e quello installativo spiccava nel lavoro Candies presentato nel gabbiotto di toast alla Manifattura Tabacchi in cui veniva creato un Universo 25 attraverso l’inserimento di duecento locuste migratorie decorate con strisce colorate. Una danza macabra intesa come modalità di consumo e appagamento immediato che si collega a Fare un’immagine di tanto in tanto in cui il pubblico veniva invitato a indossare una serie di oggetti che servivano per coprire la vista, dai più soft ai più duri. Quando la scena era satura di persone, questa si apriva e il pubblico diventava esso stesso artefice della stessa immagine che non poteva contemplare. La prossima performance sarà presentata nello spazio Artiglieria di Firenze e anche in quest’occasione i costumi saranno uno degli elementi predominanti dell’azione.

Nella sua produzione il rischio più evidente è che rimanga la comicità come unico registro e che il pubblico si fermi solo in questo ambito senza andare oltre per cogliere ulteriori stratigrafie più complesse che a volte diventano fin troppo celate. Forse lo sforzo richiesto e la capacità di reggere la tensione per superare l’ostacolo del primo sguardo non sempre riescono a trovare un equilibrio. Questo si evidenzia ancora di più nella documentazione o nelle tracce che queste performance lasciano, in quanto affiora solo un’immagine che per la stessa natura della performance esclude gli scarti, annulla qualunque riflessione successiva o l’aspetto esperienziale.

Tuttavia, la coerenza del racconto si collega a quella della ricerca, che si snoda a sua volta anche nello studio visit. Una modalità operativa, come urgenza, che mette alla prova il pubblico nelle performance e il curatore nello studio visit, in quanto la tensione richiesta e mantenuta, insieme al probabile disagio esperienziale, diventa l’unica via percorribile per sbloccare l’accesso alle informazioni sottostanti.